Uno dice “azienda commissariata” e pensa, tipicamente, alla Tirrenia, o all’Ilva: quei carrozzoni pubblici che per decenni sono andati avanti sostanzialmente assistiti dallo Stato, con le perdite di bilancio endemiche, ripianate a pie’ di lista di anno in anno. Soprattutto la Tirrenia, privatizzata per ora più di nome che di fatto. Alitalia era una cosa diversa: che fosse in perdita, gli italiani lo davano per scontato (negli ultimi vent’anni soltanto due volte – nel ’98 e nel ’99, gestione Cempella – era andata in attivo), ma la si considerava una specie di occasione perduta, come quei ragazzi di talento che vengono sempre bocciati, a scuola, perché “sono intelligenti, potrebbero fare benissimo, peccato che non s’impegnano”.
Poi, con la privatizzazione, Alitalia ha cambiato volto: sono arrivati i “capitani coraggiosi” di Colaninno & C., qualcosa hanno tentato di fare per rilanciarla, ma senza riuscirci; dopo di loro sono arrivati gli arabi di Etihad, e anche stavolta si sono suscitate grandi attese e speranze, ma nuovamente senza riscontro. Le perdite continuavano. Col commissariamento, deciso ormai otto mesi fa, il sistema ha mormorato: era ora, che la mollino presto a qualcuno bravo, anche se a pezzi, e che almeno la sia finita.
Ebbene, nossignori. I commissari arrivano, si rimboccano le maniche, ci guardano dentro, lavorano a quota periscopica e, sorpresa: l’azienda riparte. Ieri il commissario-gestore (non che gli altri dormano, ma insomma il capo è lui) Luigi Gubitosi ha presentato alla Camera i dati del periodo giugno-ottobre. Ebbene: Alitalia ha realizzato ricavi per 1,433 miliardi, un ebitda (margine industriale) di 73,9 milioni e un risultato netto negativo (perdita) di 31,3 milioni (che sarebbe di 20,9 milioni se non si contano gli interessi sul prestito governativo). E la previsione per novembre e dicembre è in linea col buon andamento dei sei mesi presentati.
E allora si resta a bocca aperta. Non solo questo significa che Alitalia era stata gestita dagli arabi non male: malissimo. Non solo significa che l’attuale gestione è sana. Di più: se una gestione sana, applicata a un’azienda commissariata, la riporta in equilibrio economico, significa che la stessa identica gestione, applicata a un’azienda che abbia una proprietà stabile e definita, guadagna e bene. Perché? Semplice: perché un’azienda commissariata non viene considerata, sul mercato, un interlocutore idoneo a progetti strategici di lungo termine, perché per definizione la si considera in una fase di transizione: oggi c’è una gestione, domani chissà; oggi è tutta intera, domani potrebbe essere smembrata. Insomma: se da commissariata l’Alitalia è tornata in sostanziale pareggio, trovandole semplicemente un padrone normale, che non faccia danni e lasci operare chi guida adesso, guadagnerebbe.
Un commento giusto l’ha fatto Graziano Delrio, dopo i conti: “Lo avevamo detto. Non c’è poi tutta questa fretta”. Infatti, ha detto Gubitosi, “a fine anno, la disponibilità di cassa sarà di circa 800 milioni” e la compagnia “non ha a memoria recente avuto tutti questi soldi” a disposizione. Ovviamente questo non significa potersi dare alla pazza gioia e fare “sciambola”: il settore dell’aerotrasporto è insidioso e terribilmente competitivo, oltretutto l’offensiva delle low-cost non accenna a placarsi, anzi. E poi il compiacimento per i buoni risultati della gestione commissariale non deve far dimenticare che dentro Alitalia si è annidata per anni una specie di sindrome dello scorpione, una voglia di autodistruzione che ha periodicamente indotto le maestranze a comportamenti autolesionistici – ai confini col luddismo – che hanno complicato la vita anche ai gestori bravi – da Domenico Cempella e Rocco Sabelli – che pure hanno tenuto in mano la cloche. Non sia mai che riparta questa deriva insensata… Però intanto le cose funzionano perché al vertice finalmente c’è qualcuno capace.
“Finora abbiamo un’ottima collaborazione con i sindacati”, ha detto Gubitosi, “ci vediamo periodicamente per aggiornarli. Noi non facciamo marketing politico, io non l’ho mai fatto in 56 anni e non intendo iniziare ora. Faremo la cosa giusta, ci muoviamo esclusivamente nell’interesse della compagnia”. Stefano Paleari, un altro dei tre commissari, ha aggiunto: “Abbiamo trovato un’azienda caratterizzata da una cospicua complessità da ogni punto di vista, di organizzazione, dei processi decisionali e del modo in cui si sta sul mercato. E un clima parecchio deteriorato nei rapporti con i dipendenti. Noi abbiamo cercato di intervenire su tutti i fronti”. Dando anche qualche buon esempio, visto che solo sui costi dei dirigenti si sono ottenuti 8,5 milioni di risparmi, riorganizzando la prima linea gestionale. Purtroppo occorre, quando si richiede un cambio di cultura aziendale: “Sarebbe stato difficile con la stessa squadra che ha gestito la compagnia negli ultimi 10 anni”, ha concluso Gubitosi. Sante parole.
Adesso lo Stato stia bene attento a non svendere. Un’azienda commissariata si vende “a qualunque costo” e magari con dote – come la Tirrenia, tanto per tornare al principio – quando perde quattrini strutturalmente. Ma quando viene risanata e dimostra, pur sotto commissariamento, di poter guadagnare, la si vende solo quando si trova un pretendente che sappia rispettarla e farla crescere, nell’interesse dei suoi 9000 dipendenti e nel rispetto di quella ragione sociale che ingloba il nome del nostro Paese.