E i programmi? Dove sono i programmi? Non le promesse, non le fantasiose scenografie con due monete e la decrescita felice, non i libri dei sogni (per la verità non c’è davvero aria di Italian Dream), ma i noiosi, concreti, dettagliati programmi. Li invoca alla Leopolda Matteo Renzi. È tempo di programmi, proclama, ma per la verità non si riesce ancora a capire attorno a che cosa ruoti l’offerta politica del Partito democratico. Prima c’era la rottamazione, poi c’era la ripresa economica e adesso? Forse è troppo presto, magari siamo ingenerosi, ma per il momento manca una idea forte e un progetto che parta dal Pd e sia in grado di parlare al litigioso e masochista mondo della sinistra di governo (tanto l’altra è solo il cartello dei no).



Lo stesso si può dire del centrodestra, quello moderato guidato da Silvio Berlusconi. Un tempo c’era il taglio delle tasse che faceva perno sul “popolo delle partite Iva”, vero punto di riferimento politico-sociale di Forza Italia e, sia pur con accenti nordisti e autonomisti, della Lega di Umberto Bossi. Adesso c’è un po’ di tutto, dagli animalisti sull’orlo del delirio alle “pantere grigie” come un tempo venivano chiamati i pensionati, dal muro contro l’onda migratoria (Matteo Salvini) alla diga contro i pentastellati.



Anche il Movimento 5 Stelle, a parte l’eterna battaglia alle caste (altrui), ha perso la purezza e non può più chiedere di marciare tutti uniti sotto le bandiere dell’onestà. Per il resto ha cambiato posizione un’infinità di volte su tutti i temi chiave della prossima legislatura. Un po’ di qua un po’ di là, a seconda delle convenienze e degli interlocutori.

Passando dalle parole ai fatti, vediamo che i partiti in quest’ultimo spicchio di legislatura sono accomunati da un solo comportamento: spremere il più possibile il bilancio dello Stato. Un bonus al giorno leva l’elettore di torno. Così spunta di tutto: incentivi per i giovani, il verde, lo sport, gli agricoltori, i bebè, i biglietti degli autobus e l’immancabile sviluppo del Mezzogiorno, senza contare l’allargamento degli 80 euro ad altri 380 mila lavoratori. La Repubblica ha fatto un calcolo sommario dal quale vengono fuori erogazioni per 12,2 miliardi l’anno prossimo. Mettendo insieme i quattro anni dei governi Renzi-Gentiloni sono stati impegnati bonus per ben 62 miliardi.



Il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ha staccato gli assegni, ma sostiene che tutto è avvenuto rispettando i limiti di bilancio imposti all’Unione europea. A Bruxelles dicono che la flessibilità concessa è stata utilizzata per spendere e spandere, con erogazioni sostanzialmente assistenziali, mentre troppo poco è stato usato per spingere la produzione e gli investimenti (si salvano sostanzialmente gli incentivi varati dal ministro Calenda). Si è speso per lo più in deficit, aggravando il debito pubblico. Così facendo si è lasciata una eredità difficile alla prossima legislatura. La Commissione europea ha rinviato a dopo le elezioni il giudizio finale della manovra di politica fiscale, ma ciò significa che il nuovo governo partirà con un handicap di diversi miliardi da recuperare a tambur battente.

A questa situazione faceva riferimento Giorgio Napolitano. In una intervista a Mario Calabresi, direttore della Repubblica, l’ex presidente della Repubblica ha rivolto un appello alle forze politiche: “Diamo retta a Draghi”, questo il suo messaggio. E ha ricordato le parole del presidente della Bce al quale si deve gran parte della ripresa economica della zona euro e dell’Italia in particolare: “Questo è il momento per mettere ordine nelle nostre case fiscali e costruire ulteriori garanzie per il futuro: non semplicemente attendendo la crescita per ridurre gradualmente il debito”. Dunque, un programma c’è e lo indica Napolitano sulla scia di Draghi: “Ridurre il peso del debito, selezionare in modo significativo la spesa pubblica e aumentare l’avanzo primario (entrate pubbliche meno spese al netto degli interessi sul debito, ndr.) nella prospettiva del pareggio del bilancio”.

Ma così non torna l’austerità? Sia destra, sia a sinistra s’odono grida scomposte. Chi legge queste colonne ricorderà che abbiamo sempre criticato l’astratto rigore alla tedesca che ha avuto un effetto pro ciclico, peggiorando la congiuntura e provocando una recessione troppo lunga e distruttiva nell’euro zona (in Italia una doppia recessione). Ma allora bisognava spingere la ripresa, oggi bisogna salvaguardarla e rafforzarla ed è chiaro che la mina vagante dell’economia italiana si chiama debito pubblico. Se non saremo in grado di disinnescarla tornerà a minacciare la domanda per investimenti e per consumi: basta un refolo di vento sui mercati finanziari per far scattare di nuovo la trappola dello spread.

Dunque, è opportuno che, alla viglia ormai delle elezioni, le forze politiche diano retta a Draghi e a Napolitano. Il programma c’è, senza bisogno di una nuova lettera-diktat della Bce come nell’agosto 2011. Ciascuno lo può orchestrare a modo suo, ma lo spartito è lì, già scritto con tutte le note.