In tempi di Brexit, tutto fa brodo per riempire un po’ le casse dello Stato. Non si sa mai. Ed ecco che anche il neo-annunciato fidanzamento del principe Harry, secondogenito di Carlo e Diana con l’attrice americana Meghan Markle, destinato a sfociare in nozze reali la prossima primavera, diviene potenzialmente un evento da capitalizzare. Almeno così la pensa il Financial Times, il quale nella sua edizione di ieri ha provato a fare i conti per capire quanto Theresa May può contare sul matrimonio di casa Windsor per rimpolpare le entrate. 



I calcoli del giornale della City si basano sui precedenti delle cosiddette “nozze del secolo”, quelle fra Carlo e Diana e poi quella fra William e Kate Middleton. E la conclusione è che questa volta i benefici sull’economia del Regno, in termini di indotto, saranno «prevedibilmente scarsi». L’esempio temporalmente più vicino a cui rifarsi è in effetti il matrimonio fra Kate e William, fratello maggiore di Harry, del 2011: un evento che si calcola abbia prodotto 107 milioni di sterline di entrate in più sul fronte del turismo e altre 500 milioni circa in più su quello dei consumi. Cifre che – anche a causa delle incertezze determinate dalla Brexit e dell’andamento della sterlina – difficilmente potranno essere ripetute nel 2018. Senza contare che in caso di bank holiday (ovvero, nel caso in cui la cerimonia si svolga in un giorno feriale dichiarato per l’occasione festivo nel Regno, in cui l’economia si ferma per tutta la giornata) andrà calcolato un impatto negativo almeno immediato sul Pil. Nel 2011, per esempio, fu pari a 2,3 miliardi di sterline, seppur riassorbite nel trimestre successivo. 



Ma attenzione, perché sul fronte Brexit – ancorché anche in questo caso in maniera indiretta – ieri è giunta una notizia che ha permesso a Theresa May di tirare un po’ il fiato immediatamente, senza dover attendere dei mesi o compiere calcoli probabilistici. Si allontana, infatti, lo spettro di elezioni anticipate in Irlanda, nel pieno proprio dello spinoso negoziato sulla Brexit e ad appena 5 mesi dell’insediamento del nuovo premier, Leo Varadkar. La svolta è arrivata ieri con le dimissioni della vice-premier, Frances Fitzgerald, investita dai contraccolpi di uno scandalo che avrebbe potuto far cadere l’intero governo. La veterana Fitzgerald, dopo aver provato a resistere nei giorni scorsi, ha ceduto alle pressioni del suo stesso partito, i liberali del Fine Gael, e ha annunciato nella mattinata di ieri il passo indietro durante il consiglio dei ministri, come riferiva l’Irish Times online. Un gesto che ha di fatto reso inutile la mozione di sfiducia prevista per ieri sera nel parlamento di Dublino. Fitzgerald era stata tirata in ballo per la gestione delle rivelazioni di una talpa sulla corruzione interna alla polizia irlandese, quando era ministra della Giustizia: in caso di sue mancate dimissioni, il governo di minoranza Fine Gael guidato da Varadkar avrebbe perso il decisivo appoggio esterno degli storici rivali social-conservatori del Fianna Fail e avrebbe spedito il Paese verso elezioni anticipate. 

Cosa c’entra tutto questo con il Brexit? Semplice. Primo, il governo di Theresa May che sta gestendo il processo di abbandono dell’Ue sta in piedi per dieci seggi garantiti dagli unionisti nord-irlandesi del Dup. Secondo, l’intreccio Irlanda-Nord Irlanda-Regno Unito è fissato dalla questione delle frontiere, visto che l’Ulster sotto giurisdizione britannica dirà addio a Bruxelles nel 2019, ma resterà il nodo delle frontiere interne con la Repubblica d’Irlanda, la quale resta invece saldamente nell’Unione e vede la questione delle sei province del Nord come una ferita che storicamente continua a sanguinare dai tempi della Partition del 1921. Ma ecco che una terza variabile ieri ci ha ricordato come il Brexit sia tutto tranne che un argomento da dare per scontato. Scorrendo le agenzie, ecco in cosa mi sono imbattuto: «Tutte le sette maggiori banche inglesi (Barclays, Hsbc, Rbs, Lloyds Banking Group, Nationwide, Santander Uk e Standard Chartered) hanno superato gli stress test e sono in grado di sostenere l’economia anche in caso di Brexit disordinato. Lo ha fatto sapere la Bank of England (BoE), precisando che si tratta della prima volta da quando sono iniziati gli stress test nel 2014 che tutte le banche passano l’esame con successo senza necessità di rafforzare il capitale. “Gli stress test mostrano che il sistema bancario inglese è resiliente a forti recessioni simultanee in Gran Bretagna e nel mondo, a una caduta dei prezzi degli asset e a costi legati alla cattiva gestione”, rileva la BoE. L’esame è stato svolto considerando uno scenario più severo di quello della crisi finanziaria globale». 

Questa è la notizia che, con ogni probabilità, leggerete oggi su siti e quotidiani. Ma, in tempi di fake news, è tutta qui la verità? No. Perché il dossier della Bank of England è un attimino più complesso e articolato della nota stampa rilanciata dalle agenzie e ci dice delle cose più serie, in prospettiva. Tutto vero rispetto al passaggio dei test, peccato ci si sia limitati a dare notizia dello scenario base posto in essere e non del cosiddetto worst case scenario, ovvero il peggiore che possa concretizzarsi. Ma, per questo, non il più improbabile. Nello scenario posto in essere dalla Bank of England, le banche hanno dovuto resistere a un calo del 50% del mercato equity statunitense, a un aumento della disoccupazione nel Regno Unito al 9,5% e crollo del 33% dei prezzi degli immobili sul mercato interno. Bene, in questa situazione i livelli di capitale delle principali sette banche britanniche sono calati dal 13,4 all’8,3% su base ponderata agli assets, ma, giova ricordare, che a partire da inizio 2017 quel livello è stato portato al 14,4% dagli istituti britannici e che le ratio di capitali sono più che triplicate dalla crisi del 2008. 

Stando ai risultati degli stress test, con questo scenario – già estremo – nei primi due anni le banche britanniche perderebbero circa 50 miliardi di sterline, ma, bicchiere mezzo pieno, solo dieci anni fa una situazione simile le avrebbe letteralmente demolite, bruciando l’intera base di capitale. Di più, nonostante tutto, le banche sarebbero comunque in grado di continuare a garantire un livello medio di concessione credito all’economia reale: di fatto, il test più importante di tutti. Ma, come vi dicevo, quello è lo scenario base. Se invece prendiamo quello peggiore, ovvero dove «un hard Brexit si combinasse con una severa recessione globale e con costi di malagestione molto stressati», cosa accadrebbe? In primis, la concessione di credito a famiglie e imprese verrebbe colpita. E seriamente. Secondo, le banche necessiterebbero di altri 6 miliardi di sterline per tamponare i rischi, un mezzo punto percentuale di buffer in più. 

Ma quale sarebbe il rischio reale, non solo per il sistema bancario e l’economia britannica, ma, strutturalmente, per l’intera Unione europea? Cosa sta per spingere la Bank of England, nonostante il “successo” degli stress test, a tramutare da volontario a obbligatorio l’aumento di quel buffer extra per gli istituti, da 0,5% a 1%? E, attenzione, non parliamo di briciole, perché in aggregato il capitale da detenere come cuscinetto di emergenza extra rappresenta per il sistema qualcosa come 11,4 miliardi di sterline. Perché se gli extra 6 miliardi che potrebbero venire spazzati via da un worst case scenario sono un qualcosa di tamponabile, non lo è lo tsunami dei derivati, tanto che il Financial Policy Committee della Bank of England sta già mettendo in revisione tutti i criteri regolatori dei cuscinetti di capitale: curioso, se gli stress test sono andati così bene, non vi pare? Perché, ad esempio, circa 6 milioni di cittadini britannici sono assicurati con compagnie dell’eurozona e i loro premi sono a rischio o, sempre ad esempio, perché circa 30 milioni di cittadini europei sono invece assicurati Oltremanica, quindi con pagamenti che vanno nella direzione opposta. 

Ma, rullo di tamburi, ecco cosa fa degli stress test annunciati ieri con tanta enfasi, nulla più che esercizi di stile: pendente sul Brexit e sull’asse fra City di Londra ed eurozona c’è un nozionale over-the-counter, quindi senza camera di compensazione, di contratti derivati pari a 26 triliardi di sterline, ovvero circa 34,6 triliardi di dollari. E sapete come la Bank of England, la stessa che festeggia il successo degli stress test, ha definito un quarto di quei contratti? «Difficili da servire per le aziende finanziarie». Ovvero, a rischio non solvibilità. Qualcosa come 8,3 triliardi di dollari a rischio! Ah, dimenticavo: circa 12 triliardi di sterline di quei contratti va a maturazione dopo la prima metà del 2019, ovvero formalmente dopo il Brexit. Per la Bank of England, «non c’è un precedente relativo allo spostamento di un volume simile di contratti in nuove entità legali». Sicuri che ci siano da festeggiare gli stress test britannici? Di più, sicuri che il Brexit si farà davvero?