Cambiare, per non cambiare niente: o meglio, per “lasciare un segno”, che in fondo è di sostanziale continuità, ma con un nome diverso. È forse questo il senso semplice della scelta di Donald Trump di sostituire Janet Yellen alla guida della Federal Reserve e di nominare al suo posto Jerome Powell, dal prossimo febbraio. Powell è sicuramente un elettore repubblicano, e questo collima con il profilo di Trump: ma è l’unica vicinanza. Per il resto si tratta di un supertecnico prudente, pragmatico, già oggi consigliere della Federal Reserve, vicino all’uscente Yellen e convinto dell’opportunità di proseguire nella politica soft della Fed: riduzione lentissima degli stimoli all’economia, che procede molto bene, e graduale rialzo dei tassi.
Poi, sì, Powell è anche un moderato sostenitore della deregulation cara a Trump: meno regole sulla finanza e sul business, e meno tasse. Che è poi la vera sfida per l’amministrazione di “The Donald” e anche per la Fed, visto che un’eventuale, incisiva riforma fiscale non mancherebbe di produrre i suoi significativi effetti macroeconomici. Il compito che attende Powell sarà ben complesso: l’economia tira, ma la Borsa è in bolla. Quindi lui dovrà da un lato frenare gli eccessi della crescita, tipicamente l’inflazione, ma dall’altro prevenire per quanto potrà il possibile sboom di Wall Street. Il tutto tenendo d’occhio i fluttuanti valori di cambio del dollaro…
Proprio ieri la decisione della Bank of England di rialzare i tassi dopo dieci anni di stasi è un piccolo segnale in più della tensione che inizia a formarsi sul costo del denaro nel mondo occidentale. Niente di grave, anche a Londra si sono sprecate le rassicurazioni sulla conferma della linea espansiva “di fondo” della politica monetaria: intanto, però, dopo dieci anni i tassi di riferimento sono stati alzati di un quarto di punto!
Certo, che l’economia reale tiri è un gran bene: “Il mercato del lavoro – ha dettato proprio ieri l’autorità finanziaria centrale americana, il Fomc – ha continuato a rafforzarsi e l’attività economica è cresciuta a passo sicuro”, il che vale di più considerati i danni economici pesantissimi che hanno colpito il Pil causati dagli uragani in Texas e Florida. Le cose verosimilmente, prevede il Fomc, continueranno ad andare bene, il che diviene però, oltre un certo limite, un’arma a doppio taglio, visto il surriscaldamento già in essere dell’economia. E dunque la mossa di Trump, annunciare un cambio al vertice della Fed, non dovrebbe sventare il previsto rialzo dei tassi a dicembre: l’economia è solida, la si può frenare un minimo senza paura di nuocerle e frenando invece l’incipiente rialzo dell’inflazione.
Il vero, prossimo round economico per Trump – intanto che le polemiche sul Russiagate non accennano a sopirsi – resta dunque la riforma fiscale. Se venisse confermata e se ne intravedesse dunque una qualche sostenibilità economica, si profilerebbe un taglio permanente dell’aliquota fiscale per le aziende al 20% dall’attuale 35%, affiancato da una riduzione delle aliquote fiscali per il reddito le persone fisiche a solo quattro dalle attuali sette, con quella massima confermata al 39,6%, ma solo per i redditi eccedenti il milione di dollari per una coppia sposata e con l’aliquota più bassa che sale al 12% salvo aumentare gli sgravi per chi ha figli… Insomma, una strizzata d’occhio ai veri ricchi, e niente di cattivo contro i redditi bassi: e dunque nulla di particolarmente rilevante per la struttura di bilancio dello Stato.