Si vede e si sente che siamo in campagna elettorale. E non solo per le regionali siciliane di domani: la politica è ormai completamente assorbita dall’appuntamento legislativo della prossima primavera. Si sente parlare di Piano Marshall per il Sud e rilancio del progetto del ponte sullo Stretto, il governo – dopo mesi e mesi di totale disinteresse – convoca in fretta e furia le parti sociali per riuscire a esentare più categorie possibili dalla tagliola della pensione a 67 anni e garantirsi così un po’ di consenso in extremis. Tutti spot. Tutta campagna elettorale, mentre tutt’intorno il Paese muore. 



Certo, il divario Nord-Sud è un problema serio, devastante. Ma voi credete davvero che Berlusconi questa volta farà seguire alle parole i fatti, in caso di vittoria? O lo farà il Pd con il suo Jobs Act? O magari i grillini con le loro ricette “rivoluzionarie”? Vediamo qualche numero di questo gap, relativo al Pil. Numeri veri, duri, non le minestre allungate dell’Istat È dall’analisi della capacità produttiva che si possono comprendere i divari cresciuti negli anni di una crisi che ha tagliato del 11,9% il Pil del Sud tra il 2007 e il 2015, contro il -6,7% del Centro Nord e il 5,7 o 5,9% del Nord-Ovest e del Nord-Est. Un distacco che, nel 2016, si rifletteva ancora in pieno nel fatto che il prodotto per abitante del Mezzogiorno è stato pari a circa il 56% di quello del resto del Paese. 



Le cause? Stando alle analisi di Bankitalia, il divario è attribuibile in parti pressoché uguali «alla diversa quota di popolazione occupata e alla produttività, che nelle regioni meridionali è più bassa di oltre il 20% rispetto al resto del Paese». Pesano i diversi contesti territoriali e le diverse dinamiche di produttività totale dei fattori. Nel Centro Nord l’utilizzo di forza lavoro qualificata da parte delle imprese è maggiore così come lo è la capacità dei centri urbani di attrarre soggetti con più elevata scolarità. E diversi sono state negli ultimi anni anche i tempi di rientro nel mercato del lavoro di chi aveva perso l’impiego. Nelle medie nazionali tra il 2008 e il 2013 meno del 29% dei disoccupati è riuscito ritrovare un nuovo impiego entro sei mesi e solo dal 2014 la quota ha ripreso a crescere, accelerando in modo significativo nel 2015. Nel Mezzogiorno invece solo il 26,5% di chi aveva perso un impiego nella media del quadriennio 2009-2012 ha trovato un nuovo lavoro dipendente entro sei mesi (a fronte di circa il 28% nel Nord e il 29% al Centro). 



Vogliamo parlare di università, ovvero il motore che dovrebbe prevenire questo gap, investendo in professionalità e ricerca, oltre che tamponare l’ormai mitica fuga dei cervelli, argomento buono per ogni stagione? In un decennio netto – dal 2005-2006 al 2015-2016 – la pressione fiscale universitaria, spiega il dossier dell’Udu pubblicato ieri e ripresa da Repubblica, è cresciuta del 61%. Sono gli anni in cui la crisi economica ha fortemente contratto l’inflazione, tant’è che, per lo stesso periodo, l’Istat certifica un incremento complessivo dei prezzi al consumo dell’11,5%. In altre parole, la “contribuzione studentesca” – l’insieme delle tasse universitarie, dei contributi regionali e di quanto sborsano genitori e figli per arrivare alla laurea – in dieci anni è cresciuta ben oltre l’inflazione. Esattamente di 474 euro a studente, facendo schizzare la “tassa media” da 775 euro a 1.249. 

È negli atenei del Nord che si registra la tassazione più onerosa: in media 1.501 euro a studente nel 2015-2016, ma è al Sud, tuttavia, che si totalizza l’incremento più consistente: più 90% in dieci anni. «Nelle sole università statali il gettito complessivo della contribuzione a livello nazionale – si legge nel report – è passato da 1 miliardo e 219 milioni a 1 miliardo e 612 milioni: quasi 400 milioni in più, spillati agli studenti per coprire la progressiva diminuzione dei finanziamenti statali per le università». A Lecce le tasse sono più che triplicate: più 207,47% in 10 anni, equivalente a 633,86 euro di aumento. Alla Sapienza di Roma la crescita in dieci anni è stata di 702 euro: più 111%, mentre l’aumento alla Statale di Milano ha toccato 510 euro: più 45%. 

Ma il contesto è ancora peggiore, se guardiamo alla stagnazione salariale, un qualcosa di strettamente collegato non solo all’anemico tasso di inflazione che sta facendo tribolare la Bce, ma anche ai consumi e al potere d’acquisto, i driver veri di un ripresa sostenuta e sostenibile, oltreché strutturale e non una tantum. Una voce, in particolare, merita attenzione: lo scollamento fra crescita degli occupati e debolezza delle ore lavorate. Sempre ieri, l’Osservatorio Jobpricing, che traccia l’andamento delle buste paga nel settore privato in base ai dati comunicati dai lettori attraverso il portale, ha fornito la sua fotografia della situazione. Da mani nei capelli, altro che ripresa. Nell’aggiornamento semestrale del Jp Salary Outlook, che compendia i numeri al primo semestre del 2017, l’Osservatorio rileva che tra gennaio e giugno le retribuzioni mediamente sono calate dello 0,2%: «Una situazione stazionaria a confronto con il dato dell’intero anno 2016, in cui le retribuzioni erano cresciute dello 2,1%. Calano leggermente le retribuzioni fisse degli impiegati (-0,5%), mentre crescono lievemente quelle di operai e quadri (rispettivamente +0,4% e +0,6%). Le retribuzioni dei dirigenti, dopo 3 anni di calo retributivo costante e significativo, non mutano il proprio livello retributivo nei primi 6 mesi del 2017 (-0,1%)». 

Sebbene da più parti si lamenti la mancata crescita dell’inflazione, che è sintomo – se a livelli controllati – di salute economica, la beffa per i lavoratori è che la pur bassa dinamica dei prezzi batte quella delle buste paga, rischiando di erodere il potere d’acquisto. Tra gli elementi di riflessione sulle buste paga dei dipendenti italiani che emergono dall’Osservatorio si conferma negli ultimi dati la sostanziale concentrazione (verso il basso) degli stipendi. Solo il 6,5% dei lavoratori – in base ai dati osservati – ha una retribuzione sopra i 40mila euro, mentre i due terzi si concentrano nella fascia inferiore a 31mila euro. Ma attenzione, «al contempo è presente una coda molto lunga composta da pochi lavoratori con retribuzioni particolarmente alte». Vogliamo mettercelo in testa che se non si mettono in tasca soldi alla gente, la ripresa non arriverà mai? E non con i vari redditi di cittadinanza e provvedimenti statalisti del genere, ma agendo sul cuneo fiscale: adesso, subito e con il machete. Che questo piaccia o meno all’Ue, perché altrimenti si muore. O si diventa americani, destino che rischiamo sempre di più: ovvero, indebitati per sopravvivere. 

Giovedì CareerBuild presentava le conclusioni del suo ultimo report sull’occupazione Usa. Bene, il 78% dei lavoratori a tempo pieno ammette di vivere mese per mese, in aumento dal già poco lusinghiero 75% di un anno fa. Di più, il 71% degli occupati Usa ammette di avere debiti, su dal 68% dello stesso periodo nel 2016. E se per il 46% degli interpellati quel debito è gestibile, il 54% dice di non riuscire a venirne a capo, tanto che il massimo che si riesce a mettere da parte è 100 dollari o meno al mese. Insomma, se il bambino ha bisogno del dentista, tocca chiedere un prestito. È questo che vogliamo per l’Italia, seguire lo straordinario modello Usa dell’indebitamento a vita, dal mutuo per la casa a quello scolastico alle rate per la macchina o la lavatrice? 

Serve operare sul potere d’acquisto e i livelli salariali, magari obbligando lorsignori di Confindustria a smetterla con le difese delle rendite di posizione e profittuale e pensando finalmente una volta al bene comune. Altrimenti, beviamoci pure gli spot della campagna elettorale. Ma non aspettiamoci nulla di diverso da quanto abbiamo avuto in dote fino ad adesso. E con la Bce costretta giocoforza ad abbassare un po’ il volume difensivo d’intervento, l’Italia e le sue aziende sono le prime sulla linea del fuoco. 

Occorreva pensarci mesi fa, ma, forse, pensandoci seriamente ora, qualcosa si può ancora fare. Se si spera di agire dopo il voto di primavera, tanto vale aprire fino da adesso la porta alla Troika. Perché quello sarà il nostro destino. Greco.