“Abbiamo una banca!”, esultava Piero Fassino al telefono con Giovanni Consorte di Unipol convinto – ahilui – di aver conquistato la Bnl. Affermazione che dimostrava due cose: che il Pci e poi Ds e poi Pd non considerava come “cosa propria” il Monte dei Paschi di Siena, perché i veri padroni di quell’istituto, prima di essere iscritti (quasi tutti) al Pci, erano senesi contradaioli, una specie di etnia a parte, dall’obbedienza topografica prima che politica. Ciò detto, auspice prima Vincenzo De Bustis e poi Giuseppe Mussari, se Bnl non fu mai del sistema piddino, il Montepaschi lo fu eccome, in versione dalemiana, prima acquistando a caro prezzo la Banca del Salento, poi ribattezzata Banca 121, e poi la tragicamente ammuffita Banca popolare Antonveneta, boccone indigesto strapagato, vera causa del crac del Monte.



Cosa c’entra tutto questo con Banca Etruria e con le audizioni alla commissione parlamentare d’inchiesta che ogni giorno, come un’interminabile partita di tennis molto equilibrata (tipo Borg-Connors negli anni Ottanta), fanno segnare un punto da una parte e poi uno dall’altra? C’entra, c’entra. Partiamo da lontano, che poi alla cronaca di oggi, a Matteo Renzi, a Maria Elena Boschi e a suo padre e all’ennesimo scomposto attacco del Pd contro la Banca d’Italia arriviamo facile-facile.



Il Pd, una volta divenuto col compromesso storico, nel ’76-’79, da partito di lotta partito di governo ha sempre cercato non solo di avere una banca, ma di avere anche potere economico. Felicemente, il compianto avvocato Guido Rossi, di sinistra anche lui e quindi ben conscio di che risma di compagni di viaggio s’era scelto, definì il palazzo Chigi di D’Alema “l’unica merchant bank in cui non si parla inglese!”. Un’area di potere economico vastissima ma inefficiente è sempre stata quella delle cooperative, con il loro incredibile “prestito sociale”, sistema di raccolta bancaria opaca e inaffidabile, molte risoltasi in grandi bidoni per chi ci è accaduto. Le cooperative, con la migliore di esse, l’Unipol, a lungo marginale, poi aggressiva e perdente con Consorte, ora normalizzata di nuovo nell’ambito veterocooperativo ma cresciuta – onore al merito – fino a bilanciare le Generali in Italia e dunque a essere intoccabile. E allora? Allora ci vuole una banca, o più d’una.



Nella Toscana rossa e massone, Banca Etruria era quella roba là: rossa, massone e provinciale. Gestita da cani, non da Papà Boschi – che al fallimento ne era vicepresidente – ma da soggetti come lui, inadeguati e strapaesani. Che costoro, tramite Boschi senior, abbiano chiesto aiuto al governo non è sicuro, infatti nessuno ha prove, ma è qualcosa di più che sicuro: è evidente. E va detto: niente di strano, niente di male. Il male, semmai, sarebbe stato aver saputo ordire trame efficaci per spalmare i buchi dell’Etruria nelle tasche di qualcun altro. Ma quell’allegro gruppetto, capitanato da Papà Boschi, c’ha ovviamente provato a salvare baracca e burattini ai danni di terzi, ma essendo pasticcioni e inaffidabili manco c’è riuscito.

Resta dunque un quadro deprimente di persone di second’ordine, accoccolate sulla panca di guida della carrozza renziana per interposta Boschi, incapaci di trarne reali vantaggi, non solleciti né dello stile istituzionale né della cosa pubblica, eppure tecnicamente incolpevoli di reati penali. Il conflitto d’interessi c’era, ed era grande come una casa, ma non è bastato a evitare i guai.

Tutto ovvio e irrilevante, salvo l’intemerata che ieri ha inopportunamente voluto fare l’altro Matteo, quello per modo di dire, Matteo Orfini, che pure è stato messo sul cassero del povero Pd nientemeno che come presidente dal suo mentore e burattinaio di Rignano. Fuoco alla polveri l’ha dato il Procuratore di Arezzo Roberto Rossi – ingaggiato come consulente dal Palazzo Chigi del Renzi presidente, e come tale in conflitto d’interessi – dicendo che Boschi padre era sempre stato fuori dai giochi affannosi succedutisi nel vano tentativo di trovare un “cavaliere bianco” che salvasse Banca Etruria. Le intercettazioni dicono una cosa diversa, ma pazienza. Ciò che rileva è che Orfini torna, pesantissimamente, ad attaccare Banca d’Italia, prendendo spunto dalle parole ironiche di Rossi che sottolineava il pressing fallito dell’istituto centrale sulla Popolare di Vicenza, a sua volta oggi fallita affinché rilevasse Banca Etruria.

Siamo d’accordo. Banca d’Italia ha forse fatto in quel caso la peggior figura della sua storia repubblicana. E del resto, se alla stazione deraglia un treno la colpa è sempre anche del capostazione. Però in un Paese normale – quale l’Italia non è, com’è convinto che non sia Massimo D’Alema, autore del famoso saggio “Un paese normale” – da una parte il governatore Ignazio Visco si sarebbe dimesso già da un pezzo dalla Banca d’Italia e non per aver giocato male lui, ma perché ha fallito la sua squadra; insomma, per le ragioni che non hanno ispirato Ventura a dimettersi da commissario della squadra nazionale: oggettiva responsabilità nei fallimento. E dall’altro il segretario del partito di maggioranza relativo non si sarebbe mai sognato di annunciare apertamente una mozione di sfiducia contro Visco. Brutti tempi.