Eppur si muove. Lo sbarco di prima mattina a Bruxelles di Theresa May per chiudere, senza troppe lacerazioni, il primo atto della Brexit segnala che la vecchia Europa, tra problemi e divisioni, si avvia a chiudere l’anno con un bilancio meno negativo di quanto temuto e di quanto non lasci intendere l’architettura barocca dell’Unione, costretta a scegliere le sue sedi con il sorteggio (vedi l’agenzia del pharma). Altri segnali, ben più rilevanti, non mancano. È passata sotto silenzio, ad esempio, la resurrezione degli hellenic bond, i titoli di Stato già precipitati a livello di carta straccia. A novembre, al contrario, è andato in porto con grande successo lo swap tra le vecchie emissioni, svalutate ai tempi del default, e i titoli di nuova emissione. Oggi il decennale, trattato al 5% circa, suscita l’interesse dei mercati pronto a scommettere che presto Mario Draghi ammetterà i titoli nel Quantitative easing. Quasi un miracolo se si pensa ai fiumi di parole spese per dimostrare che il salvataggio della Grecia non avrebbe mai funzionato.
Ad annunciare la novella potrebbe essere Mario Centeno, il portoghese che ha nei giorni scorsi sostituito l’olandese Jeroem Djissembloem, per anni esponente di spicco della politica dell’austerità. Al contrario, Centeno è riuscito a conciliare il recupero dei conti pubblici con una politica espansiva con juicio. Una quadratura del cerchio resa possibile dalla ripresa della congiuntura europea, trainata dalla politica espansiva della Bce e dall’accelerazione dell’economia Usa (senza trascurare la locomotiva cinese). In parte, accusano in patria i critici di destra, frutto dei sacrifici della politica di austerità applicate dal precedente governo di centro-destra o dal ritardo nei pagamenti destinati ai servizi pubblici. Ma la nomina di Centeno è comunque destinata a incidere profondamente negli equilibri dell’Unione, ovvero il segnale che i vertici del vecchio Continente hanno capito che è ora di cambiare registro: l’austerità da sola non basta più, anzi rischia di far saltare il processo di integrazione europea a tutto vantaggio di Cina e Usa, per ragioni diverse pronte a sfruttare la disaffezione del Sud e dell’Est Europa per la Comunità. L’ha capito Wolfgang Schaeuble, vecchia volpe della politica tedesca, che ha salutato in Centeno “il nostro Cristiano Ronaldo”, possibile mediatore tra le esigenze di stabilità avanzate dalla Germania e le richieste espansive in arrivo dall’Europa mediterranea.
I primi frutti del nuovo mood sono emersi in questi giorni. Daniele Nouy, responsabile della Vigilanza bancaria europea, dovrà probabilmente rinviare il varo dell’addendum relativo alle linee guida sullo smaltimento da parte delle banche dei non performing loans. Le banche italiane, che pure stanno procedendo a rimuovere gli npl ereditati dalla crisi (anche se con eccessiva lentezza), ringraziano.
Altra novità positiva è rappresentata dalle modifiche alle regole di Basilea. Tra queste non figura il temuto cambiamento del trattamento dei titoli di Stato in portafoglio alle banche: Bot e Btp in magazzino continueranno a non incidere sui requisiti di capitale richiesti, una circostanza che avrebbe gravemente pesato sulle possibilità di finanziare la crescita. Al contrario, ora l’impatto medio sul Cet1 delle banche italiane, secondo i calcoli di Equita, sarà di 112 punti base in calo rispetto ai 136 previsti lo scorso anno.
Sui cieli dell’Eurozona non mancano dunque i segnali di schiarita, come dimostra il balzo in Piazza Affari delle banche (anche loro, come la Grecia destinate, secondo le Cassandre, a un futuro incerto e oscuro). Non è certo il momento di cantar vittoria, ma si sta imponendo una visione meno schematica e più propositiva per il futuro della politica europea, finora condannata a una politica puramente difensiva. La svolta, dopo i successi di Emmanuel Macron, arriva dalla Germania. I socialdemocratici hanno posto come condizione per iniziare le trattative con Angela Merkel, unica possibilità per evitare un nuovo ricorso alle urne, l’avvio di un processo costituente con l’obiettivo di arrivare alla creazione degli Stati Uniti d’Europa. Per carità, messa così senza un sogno. Ma la spinta tedesca si combina con i progetti di una nuova governance europea avanzata dal Lussemburgo e, soprattutto, dalla presa di coscienza che delle due l’una: o l’Europa va avanti, proponendosi come interlocutore che conta sullo scacchiere mondiale, oppure è destinata a perder peso politico ed economico.
Senza un passo in avanti della politica fiscale, in particolare, non sarà possibile evitare l’esodo delle multinazionali (anche europee) sotto la formidabile pressione della riforma di Donald Trump, che mira a fare degli States un’area a bassa tassazione per le società. Un trend che avrà effetto anche sulla nostra riva dell’Atlantico, condizionando l’ammontare delle risorse in mano agli Stati. Solo una risposta comune può evitare che la Comunità sia costretta a subire gli effetti delle scelte altrui in materia di welfare, politica ambientale, difesa. Senza dimenticare che i tempi stringono.
Purtroppo, però, la politica italiana non trova il tempo per affrontare questi temi o, quantomeno, sottoporre agli elettori l’esistenza di questi trend determinanti per il nostro futuro.