L’incendiario della grande crisi italiana è stato il secondo presidente della Bce, il francese Jean Claude Trichet, denuncia l’ex direttore del Sole 24 Ore, Roberto Napoletano, in un libro che sta facendo discutere. No, la pistola fumante del complotto è stata la vendita improvvisa e strumentale di tutti i BTp in portafoglio da parte della Deutsche Bank, braccio armato di Berlino, strilla l’Espresso in una sorta di re-inchiesta instant. È inedita la compagine di quanti nell’autunno del 2017 si propongono come revisionisti di un passaggio della storia italiana recente, dopo esserne stati a lungo narratori negazionisti.
Il Sole 24 Ore fu tra i media nazionali il più deciso nel raccontare per mesi che la scalata quotidiana dello spread non era affatto un fake speculativo dei mercati, attizzati dalle agenzie di rating sotto lo sguardo interessato di molti governi: era invece “tutto vero”, il debito pubblico e il Pil cedente facevano dell’Italia un “cigno nero” che gli investitori internazionali correttamente rifiutavano su basi economico-finanziarie. E l’imposizione di austerità a Roma – firmata congiuntamente da Trichet e da Mario Draghi, designato ma non ancora insediato in Bce – era una conseguenza logica e oggettiva della richiesta di sostegno ai titoli di Stato italiani, “giustamente” puniti dai mercati. Nessun intrigo, nessun complotto: via Berlusconi, incapace di fronteggiare la crisi e “giustamente” sfiduciato dall’Europa; e spazio a Mario Monti, eurocrate sperimentato a Bruxelles, per realizzare il rigore necessario a tenere gli euro nelle tasche degli italiani.
I giornali del gruppo De Benedetti non furono da meno: la decisione del presidente della Repubblica, Napolitano, di affidare a Monti un esecutivo tecnico che procedesse a pesanti riforme fiscali e previdenziali, fu salutata con particolare soddisfazione, soprattutto perché parve eliminare dalla scena il Cavaliere. Nessuno – su quelle testate, ma in fondo neppure su altre – accreditò mai l’ipotesi di serie interferenze estere nella vita politico-economica nazionale: e nessuno mise realisticamente in collegamento il caso italiano con la contemporanea guerra di Francia e Gran Bretagna alla Libia e con la volontà degli Usa di Obama e di Hillary Clinton di mettere sotto forte pressione geopolitica la Russia di Putin. In ogni caso, anche la guerra a Gheddafi – cui l’Italia dovette aderire nonostante fosse contraria a molti interessi nazionali – fu presentata all’opinione pubblica italiana come una “guerra giusta”.
Solo più tardi figure come l’ex segretario al Tesoro Usa, Tim Geithner, affermarono pubblicamente che in quesi mesi la premiership Berlusconi era giudicata negativamente in molte cancellerie: ma senza spingersi, naturalmente, a parlare di oscuri disegni politico-finanziari contro l’Italia. E com’è noto anche l’inedito tentativo della Procura di Trani di ricostruire per via giudiziaria il presunto complotto del 2011 si è concluso con l’assoluzione del principale imputato, l’agenzia di Rating Standard & Poor’s. In breve: tutte le parole attorno al “golpe dello spread” sono state spese da tempo: anche le meno banali; e nessun fatto è mai stato veramente dimostrato.
Neppure l’interessato – Berlusconi – è sembrato mai tenere con convinzione sulla sua agenda personale e politica un “regolamento dei conti” per quella vicenda che sembrava aver segnato per sempre la sua parabola. Nemmeno oggi il centrodestra sta ponendo al centro della sua campagna una “vendetta” contro l’austerity che il quinquennio di governo del centrosinistra ha in parte ereditato da Monti. Lo stesso tentativo di estendere al 2011 il confronto nella commissione d’inchiesta bancaria è legato più alle manovre del Pd che quella commissione ha voluto che al capo-delegazione del centrodestra Renato Brunetta. Per non parlare della pre-candidatura a premier di Antonio Tajani: un presidente dell’euro-parlamento certamente ansioso di una svolta nella governance Ue, ma non animato da rancori politici che in Italia sono propri soprattutto di M5S e in Europa delle nuove democrazie autoritarie dell’Est.
Perché ora questa singolare raffica di riletture ex post? E con quali obiettivi? Gli identikit dei revisionisti sembrano condurre a parti della maggioranza di governo uscente: al nocciolo duro del Pd, attorno al leader Matteo Renzi; o a suoi alleati in una campagna elettorale incertissima e opaca. Gridare al “complotto” – sei anni dopo – certamente non può essere gradito a Draghi, che mise una firma decisiva sull’austerity italiana, benché negli ultimi anni abbia poi vestito i panni del “cavaliere bianco” evocato dall’ex direttore del Sole. Ora è noto che il banchiere centrale dell’euro è l’unica vera “riserva della Repubblica” di cui potrà disporre il presidente della Repubblica Mattarella nel caso, probabilissimo, di stallo post-elettorale. Se Paolo Gentiloni non riuscirà a rimanere a Palazzo Chigi – forse con una nuova coalizione parlamentare – è possibile che tocchi a Draghi: il quale potrebbe lasciare Francoforte con un anno d’anticipo in coincidenza con una risistemazione della governance politico-finanziaria della Ue in agenda per l’anno prossimo. È evidentemente l’ipotesi meno gradita a Renzi: alle cui retrovie – in chiara difficoltà pre-elettorale – può forse far gioco narrare agli elettori di un’Italia tuttora perseguitata dalla Ue, indifesa e quindi indifendibile sia da Berlusconi che da Draghi contro lo strapotere dell’Europa carolingia.