Se vi interessa sapere cos’ha detto ieri Gianni Zonin in Commissione d’inchiesta sul sistema bancario non farete fatica a trovare notizie al riguardo: l’ex presidente della Popolare di Vicenza, deus ex machina per vent’anni ininterrotti, è giustamente uno dei simboli della crisi degli istituti italiani e del dramma di centinaia di migliaia di risparmiatori e investitori: un po’ di gogna, per quanto io rifugga sentimenti da Robespierre, non gli farà male. Anzi. Il problema è che temo – e spero vivamente di sbagliarmi ma sto scrivendo alla cieca, senza sfera di cristallo – che oggi i giornali e i tg saranno meno generosi nel dare particolari e conto di qualcos’altro di paradossalmente più grave uscito dai lavori in corso a Palazzo San Macuto. Per l’esattezza. il fatto che il Mef – al secolo il ministero delle Finanze -, che stipulò con Morgan Stanley un derivato nel 1994, mostrava «una sostanziale inadeguatezza delle proprie strutture ministeriali, soprattutto per quanto riguarda la valutazione del rischio».
E chi si è permesso di dire una cosa simile? Qualche blogger retroscenista in cerca del suo quarto d’ora di notorietà? No, il sostituto procuratore presso la Procura regionale del Lazio della Corte dei Conti, Massimiliano Minerva in audizione alla commissione sulle banche, precisando che il Tesoro e in particolare la responsabile del debito pubblico, Maria Cannata, «ebbe comportamenti omissivi». Per Minerva, le operazioni stipulate dal 1994 «erano assistite da una clausola molto particolare di early termination. C’e un accordo del ’94 tra Stato e Morgan Stanley che prevedeva una clausola di estinzione anticipata che consentiva a Morgan Stanley e solo a lei la facoltà di chiudere posizioni in essere. Tra queste clausole vi era il superamento di limiti prestabiliti dell’esposizione della banca con lo Stato». Il derivato viene chiuso prima nel 2011. E, stando alla valutazione di Minerva, «la responsabile del debito pubblico del Tesoro, Maria Cannata, dichiara di aver avuto consapevolezza di questa clausola solo nel 2007, invece il Mef non può dire di ignorare che esisteva questa clausola. È un comportamento secondo la procura omissivo».
Di più, per Minerva «è sconcertante, perché l’amministrazione al momento della sottoscrizione di prodotti finanziari non è pienamente consapevole delle alee che assumeva. Può darsi pure che la dottoressa Cannata venga assolta. Intanto, è giusto che stia al suo posto». Una frase, quest’ultima, certamente garantista ma che non basta a limitare l’impatto devastante di quanto Minerva ha dichiarato in Commissione, la quale giova ricordare ha i medesimi poteri della magistratura ordinaria: «Sui derivati stipulati dal Tesoro, effettivamente la dottoressa Cannata aveva un ruolo dominante, firmava tutti i contratti dei derivati. Ma il problema è anche l’organizzazione della struttura ministeriale, con controlli interni inadeguati o assenti e controlli esterni inesistenti». Stando a quanto hanno poi precisato i procuratori della Corte dei Conti, ci vollero 20 anni perché i vertici del Tesoro arrivassero alla consapevolezza delle clausole asimmetriche che di fatto favorivano Morgan Stanley. Tuttavia, anche dal 2007, quando Cannata dichiarò di esser venuta a conoscenza di tali clausole, «se ne sottovaluta la portata».
In sostanza, a giudizio di Minerva, fino al 2007 il ministero «non sa e dal 2007 al 2011 il ministro non fa nulla per cercare di ricondurre questa clausola a una dimensione sostenibile. Nel periodo del primo tempo dal 2000 al 2008, al Tesoro non c’erano software per l’analisi probabilistica e Cannata, nel 2015, riguardo alla difficoltà di ricostruire il mark to market, dichiarò che il problema era che aveva a disposizione data-base con ben poche informazioni». Quindi, non solo nel gennaio 2012, dal loden di Mario Monti uscirono 4 miliardi e rotti di denaro pubblico per onorare quelle fantasiose clausole imposte dalla banca d’affari (non al governo del bocconiano giunto a “salvare” l’Italia dal default, giova ricordarlo, visto che eravamo nel 1994) all’Italia, ma ora abbiamo un atto d’accusa formale che travalica l’indagine della Corte dei Conti – conclusa lo scorso anno – e arriva di fronte al Parlamento, di fatto riunito in sessione bicamerale nella Commissione: stando alle accuse, il Tesoro stipulò contratti degni di un hedge fund non sapendo cosa stava facendo. Peccato che il prezzo di quell’irresponsabilità lo abbiamo pagato tutti noi.
Scusate ma in questo caso non mi interessa quanto il nome sia importante, i gradini da scalare alti e potenti o la ragion di Stato da preservare: questa storia deve portare con sé dei responsabili che spieghino esattamente il perché di quei contratti, dell’accettazione di quelle clausole tagliola e del combinato fra scatto di queste ultime e crisi finanziaria che mandò l’Italia sull’ottovolante, aprendo una fase emergenziale che consentì a Mario Monti di staccare quell’assegno senza che nessuno dicesse alcunché, visto che la vulgata voleva che rischiassimo di finire come la Grecia, con stipendi pubblici e pensioni a rischio. Qui non si tratta di titoli di debito pubblico in pancia alle banche, né di spread lasciato salire ad hoc, qui si tratta di un’operazione di hedging di Stato che, di fatto, si è rivelata una pura e semplice speculazione di Morgan Stanley nei confronti dei nostri conti pubblici.
E l’aggravante non sono solo i costi accessori delle clausole di chiusura preventiva – in piena austerity, mentre si creava il mostro sociale degli esodati -, ma il fatto che al Tesoro, stando alla Corte dei Conti, si navigasse al riguardo in una mare magnum di ignoranza, impreparazione e incompetenza. La gravità di quanto emerso ieri, ancorché già noto dal 2016 quando la Corte dei Conti del Lazio pubblicò le risultanze della sua indagine, cresce di magnitudo, poi, se inquadrata in un contesto politico-finanziario come quello degli ultimi tempi, con sempre maggiori voci relative a banchetti tedeschi garantiti dalle politiche Bce e accuse rinnovate a Deutsche Bank, di fatto l’attore principale fra quelli esterni della crisi del 2011, quando scaricando en plein air oltre 9 miliardi di nostro debito dai bilanci, scoperchiò il vaso di Pandora del concetto stesso di risk-free per l’esposizione sovrana nell’eurozona. Il tutto, mentre si speculava allegramente sui titoli greci, garantiti da uno scudo tutt’altro che virtuale di garanzia bancaria schermata dall’accordo fra Atene e i creditori, al netto dell’haircut. In parole povere, i titoli ellenici erano ultra-sicuri, visto che la solvibilità di Atene era vincolata agli aiuti: ciò che arrivava dall’Europa sotto forma di stanziamenti, tornava immediatamente con partita di giro ai creditori attraverso pagamento di capitale, interessi e cedole.
Quale gioco, in anni post-Tangentopoli, post sacco del Britannia, pre-euro e con Maastricht che imponeva le regole e Amato che rubava i soldi nottetempo dai conti correnti per entrare in Europa, sottendeva quei derivati? Perché se Zonin deve darci conto di prestiti e mutui “baciati” o di un sistema politico-bancario che lo vedeva unico fra i banchieri a poter entrare a palazzo Koch senza appuntamento e senza bussare, qui parliamo di qualcosa di ben più grave e sistemico. Oltretutto, in grado di nascondere anche alcuni germi della crisi del 2011, al netto di un governo Berlusconi oggettivamente a pezzi e di un ministero delle Finanze che andava col pilota automatico rispetto all’esecutivo. In tal senso, appaiono gravissime ma quantomai azzeccate le parole espresse dal vice-presidente della Commissione e capogruppo di Forza Italia alla Camera, Renato Brunetta: «Fermo restando l’asimmetria dei contratti derivati sottoscritti negli anni, fermo restando le clausole leonine contenute, fermo restando l’inadeguatezza degli apparati del Tesoro preposti, tutto questo sistema galleggiava su un possibile tornaconto immediato, ma su un assurdo rischio a medio-lungo periodo. E tutto questo viene fuori, esplode, quando lo spread si impenna a causa di un’operazione “irresponsabile” (copyright Romano Prodi) speculativa di Deutsche Bank contro l’Italia. Un’operazione contro il nostro Paese fatta da un partner, da uno specialista del Tesoro».
Servono risposte, altro che i falsi moralismi da strapazzo per la cancellazione della norma sui vitalizi dagli emendamenti al Def: chi decise e perché di giocare a dadi con i derivati sul futuro dell’Italia? A quale prezzo concordato? E perché con quelle clausole unicamente a favore della banca d’affari contraente? Ripeto, servono risposte. Per quanto amare. O, come temo, inquietanti per molti profili istituzionali e presunti o sedicenti padri della Patria.