Non c’è dubbio, ragazzi: questi della Silicon Valley sono avanti, molto avanti! Guardate Amazon: ieri s’è saputo che sono riusciti a far quello che noi, comuni cittadini italiani sudditi del fisco, non riusciremo mai a fare: metterci d’accordo con l’Agenzia delle Entrate. Hanno firmato: pagheranno cento milioni di tasse arretrate e stop. Capperi! Una nota informa che il colosso americano dell’e-commerce Amazon ha infatti “siglato l’accertamento con adesione per risolvere le potenziali controversie relative alle indagini fiscali, condotte dalla Guardia di Finanza e coordinate dalla Procura della Repubblica di Milano, relative al periodo tra il 2011 e il 2015. Gli importi sono riferibili sia ad Amazon Eu che ad Amazon Italia Services”.



Proviamo a tradurre l’incomprensibile burocratese del comunicato. Significa, in sostanza, che per sei anni quelli di Amazon riconoscono di aver fatto finanza allegra e, in perfetto stile da mercato delle vacche medievale, magari giocando ai dadi e davanti a un bicchiere di rosso, si sono messi d’accordo. Sembra di sentirli…”Vi diamo dieci milioni”, “Nossignore, quelli li dai a tua sorella, ce ne vogliono almeno duecento”, “Siete impazziti? Massimo venti!”… “Vabbè, giochiamocela ai dadi!”. “Nossignore, paghi tutto!”…e così via.



Ragazzi, che squallore. Che vergogna. Stavolta non solo a carico del nostro Paese: l’origine dello scandalo di questi big di Internet che non pagano le tasse risiede in un baco mentale inoculato dall’amministrazione Obama nei suoi otto anni di inutile dominio americano nelle teste dei governanti di mezzo mondo, e che cioè l’innovazione digitale andasse agevolata senza “se” e senza “ma”, in un mondo che invece resta irto di ostacoli e problemi per chiunque faccia innovazione su altri fronti, dalla ricerca farmaceutica, a quella chimica a quella meccanica, insomma, per tutti gli altri.



Invece, a questa pessima genìa – pessima sul piano culturale e morale – della Silicon Valley, sessista, speculatrice, fallimentarista seriale, è stata concessa ogni licenza: contro i diritti dei lavoratori, precari a vita; contro i diritti dell’ambiente, con le mostruose server-farm energivore che inquinano da sole quanto una locomotiva a carbone in un garage; contro il fisco. Google, Amazon, Facebook e Apple (i “Gafa”, come li chiamano in Francia) le tasse praticamente non le pagano da nessuna parte, neanche negli Usa, i quali però sono talmente ricchi da riuscire, in sostanza, a farne a meno…

Ebbene: come pensare che quel bollitore arrugginito che è la Commissione europea generasse tempestivamente una reazione attiva a questo malcostume? Al contrario: nutrendosi di contraddizioni, l’eurocrazia ha ritenuto di dover perpetuare anche a vantaggio dei Gafa lo sconcio del paradiso fiscale irlandese, il porto delle nebbie dei redditi di milioni di evasori, con la sua succursale lussemburghese, mentre poi i tedeschi rompono l’anima a noi col Fiscal compact. E di fatti Amazon evadeva le tasse in Itala triangolando appunto tra Dublino e Lussemburgo. Ed eccoci qua, all’accordicchio di oggi.

Cos’è accaduto, infatti? Che si è svegliato il ministro Padoan? Che l’Agenzia delle Entrate ha battuto un colpo contro un potente. Nossignore. In Italia s’è svegliata la Procura di Milano che con la Guardia di Finanza ha fatto le pulci ad Amazon, e l’ha incriminata. E intanto a Bruxelles è arrivata Marghrete Vestager, la commissaria alla concorrenza. Personaggio-chiave. Attenzione: non è Giovanna d’Arco, non è Madre Teresa. Meno che mai Maria Elena Boschi. La Vestager è una personalità politica come quelle che mancano da noi. É un errore del sistema, cioè: una persona indipendente che fa gli interessi dei cittadini e non dei potentati economici, e li fa da una posizioni chiave, quella che Mario Monti rivestiva quando fece l’unica cosa rilevante della sua carriera politica, cioè la causa antitrust contro Microsoft. Ebbene, la commissaria Vestager – una socialista danese, cristiana, figlia di due Pastori protestanti – ha mosso le acque contro i Gafa e il clima è cambiato. Il vento nuovo – di sanzioni a carico degli evasori digitali – è nato a Bruxelles ed è arrivato fino in Italia nonostante la stolida acquiescenza renziana allo specchietto digitale delle allodole, grazie al fatto che il piatto dell’erario piange, e i quattrini vanno pur recuperati da qualche parte. Di qui il dibattito politico sulla web-tax, peraltro ancora infruttuoso ma minaccioso alle orecchie di Facebook, Amazon e gli altri, le inchieste della Procura, la reputazione che ha finalmente cominciato a scendere e la mossa d’anticipo (si fa per dire anticipo) giocata prima da Facebook e ora da Amazon.

Ebbene: non ringraziamoli! State pur certi che se hanno offerto 100 sapevano in cuor loro che dovrebbero pagare 1000. E del resto: la Corte dei conti (non Giggetto lo Statistico, o una delle tante fonti balorde cui spesso anche noi giornalisti ci abbeveriamo) ha attestato ad aprile 2017 che “un carico fiscale complessivo (societario, contributivo, per tasse e imposte dirette) penalizza l’operatore italiano in misura (64,8%) eccedente quasi 25 punti l’onere per l’omologo imprenditore dell’area Ue/Efta”.

Chiaro: pesa sulle imprese italiane un 64,8% di tax-rate, prelievo fiscale totale. Dunque 100 milioni sei anni – 16 milioni all’anno – significa che per potersi “limitare a pagare” quella cifra, Amazon avrebbe dovuto sviluppare in Italia appena 25 milioni di utile ante-imposte, una roba da aziendina che ne fattura 100-120. Sappiamo che per la Guardia di Finanza Amazon avrebbe evaso 130 milioni di euro di Ires nel periodo 2009-2014, ed è su questa base che sono stati offerti i 100 milioni a saldo: ma è un’approssimazione inaffidabile.

Detto questo, è pur sempre un primo passo verso una certa equità fiscale. L’importante è che questa gente non pretenda di essere ringraziata. E invece l’impressione è purtroppo proprio questa. L’Agenzia delle Entrate, nel dare la lieta novella che Amazon s’è degnata di pagare, ha precisato che “sarà inoltre ripreso il percorso, a suo tempo sospeso a seguito dei controlli attivati, finalizzato alla stipula di accordi preventivi per la corretta tassazione in Italia in futuro delle attività riferibili al nostro Paese”.

Non ci siamo. Nessuna “stipula di accordi preventivi”. Non è giusto: o tutti, o nessuno. Non è che Amazon ha diritto “agli accordi preventivi” e noi comuni mortali ci dobbiamo beccare tra capo e collo le cartelle esattoriali. É una vergogna. Visto che il vicepresidente di Amazon in aspettativa Diego Piacentini risiede a Palazzo Chigi e si occupa di attuare l’Agenda Digitale, magari il ministro delle Finanze – che peraltro non c’è! – potrebbe convocarlo e farsi dire in un orecchio quanti utili fa Amazon in Italia, ma sul serio, e su quegli utili applicare lo stesso tax-rate della Farmacia Pautasso o dell’Officina Bianconi. Così, per chiarire, senza accordi preventivi.