L’attesa per la nuova settimana di lavori della commissione parlamentare d’inchiesta sulla crisi bancaria – forse quella conclusiva – è spasmodica. L’attenzione è tutta concentrata sulle audizioni del ministro dell’Economia Padoan, del governatore della Banca d’Italia Visco (appena confermato dal governo Gentiloni a dispetto dell’opposizione del leader Pd Renzi) e, non ultimo, dell’ex amministratore delegato di UniCredit, Ghizzoni. Le aspettative guardano a nuove puntate del “caso Boschi-Etruria”, deflagrato la settimana scorsa con le testimonianze del presidente della Consob, Vegas, e dell’ex Ceo di Veneto Banca, Consoli. Ma mentre aumentano – soprattutto nel controsinistra – le pressioni sul sottosegretario alla Presidenza perché non si ricandidi, non è affatto certo che le prossime sessioni della commissione Casini avranno la Boschi come protagonista.



Giovedì scorso a ora di cena – quando i siti erano inondati dalle dichiarazioni di Vegas e la Boschi correva a difendersi a “Otto e Mezzo” – la commissione ha ascoltato il direttore del debito pubblico, Maria Cannata. Il tema era estraneo e lontano rispetto al crac Etruria e agli altri dissesti bancari recenti: i contratti derivati stipulati dal Tesoro italiano negli anni ’90 per coprire i rischi sulle emissioni di BTp quando i tassi erano ben diversi da quelli esangui degli ultimi anni. Quegli accordi pesano oggi per 30 miliardi di perdite potenziali sulle finanze pubbliche, perdite che si sono materializzate per 3 miliardi all’inizio del 2012, quando la banca americana Morgan Stanley ha potuto chiedere la risoluzione anticipata di un derivato stipulato “nel 1994” ha confermato Cannata. La quale non ha mai nominato il nome del firmatario di quei contratti, il direttore generale del Tesoro in carica allora: l’attuale presidente della Bce, Mario Draghi. Cannata, a domanda, ha solo confermato che un alto dirigente del Mef come lei e come i suoi predecessori non si muove certo in autonomia rispetto ai vertici tecnocratici e politici del ministero. Di più: interpellata – non è chiaro da quale settore della commissione – sulla crisi dello spread nel 2011, alla base anche della crisi bancaria, la dirigente ha escluso “complotti” e anzi smontato le accuse specifiche contro Deutsche Bank, venditrice di molti BTp a cavallo fra la caduta del governo Berlusconi e l’avvento del governo tecnico guidato da Mario Monti.



Monti (ministro “ad interim” nel suo governo), Giulio Tremonti (ministro fino al 2011) Vittorio Grilli (direttore generale con Tremonti e poi ministro con Monti), Fabrizio Saccomanni, direttore generale della Banca d’Italia con Draghi e poi ministro nel governo Letta, oggi designato alla presidenza di UniCredit: sono questi gli attori chiamati in scena dalla commissione nei prossimi giorni, assieme all’attuale inquilino di Via XX settembre. La recita – a inevitabilmente oggetto politico-elettorale – potrebbe scavalcare all’indietro la crisi bancaria fino alle sue radici nella torrida estate 2011: in parte inequivocabili già allora, in parte presunte anche oggi, in parte frutto di narrazioni disparate.



Il Pd renziano, messosi alle strette da solo con una commissione-boomerang, potrebbe tentare in extremis di farla esplodere nel finale contro Draghi: presunto esponente della tecnocrazia globalista pronta a riprendere le redini del Paese in caso di vuoti e stalli nel dopo-voto. Ma sull’anti-draghismo, il Pd non è certo solo: “Nella storia italiana, non è una novità che una parte della classe dirigente sia subalterna allo straniero”. Non lo ha detto Matteo Salvini: lo ha dichiarato ieri sulla Stampa Massimo D’Alema, ex premier e attuale eminenza grigia di Mdp-LeU, che candida a premier Pietro Grasso.