Fine maggio ’99, interno notte, ristorante Santini di via San Marco a Milano: una lunga tavolata, almeno venti persone, è riunita per un festeggiamento. È appena giunta in porto positivamente l’Opa dell’Olivetti di Roberto Colaninno su Telecom Italia. Al centro della tavola, il cosiddetto “ragioniere” di Mantova, appunto Colaninno, artefice dell’impresa. Alla sua destra, Marco De Benedetti, all’epoca amministratore delegato della Tim, uomo forte del gruppo Telecom; alla sua sinistra Franco Debenedetti, economista liberista ed ex manager. Punto di contatto fra i due: Carlo De Benedetti. Marco, ne è il figlio secondogenito; Franco, ne è fratello. Punto di dissidio tra i tre: Carlo De Benedetti aveva cercato in tutti i modi di osteggiare la riuscita dell’Opa Olivetti su Telecom. Convinto – diceva agli amici – che fosse un modo losco di rovinare Telecom, e i fatti gli hanno anche dato ragione; sicuri invece i suoi stessi amici che la vera causa di quella sua ostilità fosse il rancore e il dispetto verso Colaninno, suo ex dipendente alla Sogefi. Sta di fatto che il fratello e il figlio, strafottendosene delle preferenze dell’autorevole parente, erano lì nella squadra festosa e vincente dello scalatore. Ritratto di famiglia in un interno.



La storia si ripete. Solo chi non conosce la storia si meraviglia della lettera che Marco De Benedetti, oggi presidente di Gedi – che non ha nulla a che vedere con Guerre Stellari, ma è solo il brutto nome dato alla società frutto della fusione tra La Stampa e l’Editoriale L’Espresso – ha affidato al Cdr di Repubblica per prendere le distanze dalle dichiarazioni fatte dal padre Carlo al Corriere della Sera contro Scalfari e contro Repubblica. In questa lettera, Marco ha affermato, testualmente, che “l’intervista rilasciata da mio padre qualche giorno fa ha generato disorientamento, con riferimento alla posizione della Società nei confronti di Repubblica. Desidero ribadire quanto ho avuto modo di illustrare nella riunione di mercoledì scorso, e cioè (…). Le opinioni espresse nell’intervista non rappresentano né il pensiero degli azionisti, né quello del vertice della Società, che sono tutti determinati a proseguire sulla strada tracciata. Nell’augurarvi buon lavoro, vi invio i miei migliori saluti”.



Padre e figlio si sono insomma mandati a quel paese in pubblico. Per interposti giornali. Che stile. Scriveva Lev Tolstoj che “tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice è invece disgraziata a modo suo”. Ma felicità e disgrazia sono stati d’animo soggettivi: guai ad attribuirli a chi, probabilmente, vive metriche interiori e valoriali completamente diverse. Anche per questo, la storia del rapporto tra l’Ingegnere, i suoi figli e La Repubblica è tutta da rileggere: e non solo per il vizio della memoria, ma anche per capire dove sta andando e potrà andare il secondo quotidiano del Paese, nonché l’unico a essere nato e cresciuto fino alla leadership negli ultimi decenni, per poi restituirla al vecchio sovrano, il Corriere.



De Benedetti fu il taxi che Eugenio Scalfari e Carlo Caracciolo – veri e soli artefici, nell’ordine, del concept e del progetto di Repubblica – scelsero di prendere per farsi portare un passo più avanti. Quando decisero di vendere all’Ingegnere, nel 1990, con grande cordoglio della redazione e degli amici, ne spiegarono a tutti le due ragioni essenziali, entrambe (naturalmente oltre a quella primaria di intascare 400 miliardi di vecchie lire). La prima ragione era che consideravano impossibile, per due persone fisiche come loro, reggere, da soli, alla pressione della concorrenza internazionale: vendere era dunque stata una scelta necessaria per consentire a Repubblica di competere ad armi pari nel mercato globale: e nel dirlo, lo pensavano, tanto che acquistarono una quota nell’Indipendent, con mossa costosa e inutile, visto che nessun gruppo editoriale tradizionale nel settore news quotidiane ha mai fatto grandi affari all’estero, e nemmeno ci riuscì La Repubblica. L’altra ragione era che, vendendo all’Ingegnere, La Repubblica non avrebbe perso nessuna delle sue particolarità. Almeno per sei anni, il periodo durante il quale non avrebbe potuto cambiare nulla, perché i patti parasociali che l’Ingegnere, pur di conquistare il controllo azionario del gruppo, aveva loro concesso, assegnavano ai soci venditori l’ultima parola su tutte le decisioni strategiche, compresa la permanenza di Scalfari alla direzione o la nomina di un suo successore, fino al maggio del ’96. 

Scalfari spiegò, pressappoco – e chi c’era (come chi scrive) lo ricorda assai bene -: “De Benedetti è un cane sciolto, un compagno di strada compatibile con la natura indipendente di Repubblica, perché anche lui, come noi, è refrattario alle cordate, agli incasellamenti, alle cupole ed è abituato a decidere in proprio”. Lo diceva e lo pensava sul serio, Scalfari. E riteneva, a buona ragione, che avrebbe potuto agevolmente tenere a bada gli spiriti padronali che bollivano in De Benedetti. In che modo? Semplice: come fece ad esempio nel ’92, quando Repubblica – unica! – scrisse che l’aumento di capitale tentato in extremis dall’Ingegnere all’Olivetti era fallito, perfino forzando un po’ i termini della realtà.

Il punto era che il grande giornalista, abituato ad “autodirigersi” e a non essere “eterodiretto”, non perdeva occasione di far capire all’Ingegnere che comandava ancora lui. Non era soltanto questione di “ego”, di cui pure Scalfari non era affatto carente. Il fondatore diceva, con ragione, che un giornale capace di darsi la linea da solo, all’interno di una cerchia ristretta di persone rappresentate, oltre che da lui, dai suoi amici di sempre e dai capi del giornale stesso, a prescindere dagli interessi degli azionisti, avrebbe sempre avuto un “plus” rispetto ai concorrenti, di cui al contrario la classe dirigente nazionale poteva sempre prevedere (e condizionare!) opinioni e posizioni, conoscendo quelle dei loro padroni. Di Repubblica, no: nessuno poteva dirlo. E i calci negli stinchi che periodicamente Scalfari mollava ai suoi stessi amici erano lì a testimoniarlo. Ma allora De Benedetti cosa ci aveva guadagnato a investire tanti soldi, e per così tanto tempo, in un’azienda, senza contare nulla? Lui che era sempre stato campione del mordi-e-fuggi, compra, risana (a volte) e rivendi? Ci aveva guadagnato due cose: tutela e spazio di sfogo. Le due cose di cui più aveva bisogno. Spieghiamoci, perché tutto si tiene, a cominciare dalla tutela.

C’è uno spot televisivo meraviglioso, nella seconda metà degli anni Ottanta, con cui Scalfari lanciò Affari & Finanza. Rappresentava, nella prima parte, un giovanotto in eskimo che passava in bicicletta all’edicola e comprava Repubblica. Nella seconda parte dello spot, lo stesso giovanotto, sbarbato e incravattato, parcheggiava l’auto davanti all’edicola e, dieci anni dopo, ritirava Repubblica con Affari e Finanza.

La metafora era chiara e vera. Repubblica aveva compiuto il miracolo di prendere per mano, nel 1976, la borghesia italiana di sinistra, quella che votava Pci e apprezzava Berlinguer e disprezzava la Dc e il Psi di Craxi, di accompagnarla al governo col compromesso storico e di riavvicinarla a una piena accettazione del capitalismo e del mercato, precorrendo di qualche anno la Perestrojka e la caduta del Muro. Scalfari, La Repubblica e il suo mondo avevano sdoganato il più grande partito comunista occidentale proiettandolo verso il potere costituzionale. E in quel Pci “di governo” si riconosceva una buona metà della magistratura italiana, quella più attiva. Chi era di sinistra, chi votava comunista, leggeva Repubblica; e chi leggeva Repubblica e aveva dalla sua in compenso il Pci, i sindacati e molti procuratori della Repubblica.

È qui che s’innesta il concetto della particolare tutela che De Benedetti s’era procurato, diventato finanziatore (non padrone!) di Repubblica. Quel mondo lì – il potere di sinistra – rispettava il cane per il padrone. Il padrone vero era Scafari, con Repubblica; il cane era De Benedetti. La storia non si fa con i “se” e con i “ma”, però chi può escludere che le sorti giudiziarie dell’Ingegnere – sia per le tangenti alle Poste, che lo videro arrestato all’alba e scarcerato alla sera, che per l’assoluzione in extremis per l’Ambrosiano – non sarebbero state più amare? E poi: non era fisiologico, per lui – bestia nera degli Agnelli, dopo averne ammirato e invidiato in una posizione da condomino di seconda fila, il potere torinese – indossare le vesti del miliardario rosso? Un posizionamento, questo, che gli era valso una corsia preferenziale – in termini di accesso privilegiato a relazioni e dialoghi – nei rapporti col sindacato e con la sinistra di governo, da Prodi a D’Alema.

Impossibile e antigienico azzardare stime e pesare questi vantaggi in termini assoluti. Ma è certo che nel suo essere cane sciolto, nel suo aver vissuto dentro il “salotto buono” salvo sparlarne ogni minuto, insidiandone fallimentarmente gli assetti, dalla Fiat alla Pirelli, De Benedetti si è molto giovato della sua posizione di coeditore di Repubblica. È stato per lui come avere un alano in giardino: solo pochi cinofili sanno che il bestione non morde, neanche al comando del padrone di casa, se non lo decide lui; e comunque gli estranei, prudenzialmente, girano al largo.

La componente sfogo è valsa poi per De Benedetti quasi altrettanto: un uomo che ha sempre vissuto nel rancore, che ha sempre sparlato di chiunque, miracolato dall’opinione pubblica col non averne ricordato sistematicamente la sequela di sconfitte e di figuracce inanellate in tutta la sua carriera imprenditoriale – ma si dovrebbe dire di raider finanziario – non poteva che godere del fatto di essere lord protettore di un giornale che non faceva sconti ai gruppi industriali padroni del Corriere della Sera, del Messaggero, del Sole 24 Ore, del Gazzettino, del Carlino e poi al comune nemico Berlusconi: il quale, se Repubblica non avesse avuto alle spalle De Benedetti e De Benedetti non avesse avuto al fianco Repubblica, avrebbe sgominato entrambi.

Questo è però passato remoto. Tutto cambia, nettamente anche se gradualmente, negli anni Duemila. La nomina del successore di Scalfari nella persona di Ezio Mauro avviene ancora in vigenza dei vecchi patti parasociali, siamo nel maggio del ’96 e i voti del fondatore e di Caracciolo, spiazzano l’Ingegnere che avrebbe preferito l’ottimo Giulio Anselmi, risarcito poi con la direzione dell’Espresso e quindi dell’Ansa (Anselmi sarebbe stato un altro errore di De Benedetti, perché si sarebbe rivelato indipendente quanto Mauro). Ma gradatamente e fatalmente, e nonostante la schiena dritta di Mauro – che però commette l’errore di diventarne umanamente amico lasciandosi forse sedurre da un certo innegabile fascino intellettuale che l’Ingegnere poteva irradiare su alcuni – De Benedetti negli anni Duemila prende sempre più spazio a Repubblica. Inizia a influenzarne la linea, si mette a far politica, a fare il king-maker anti-berlusconiano, brucia candidati su candidati, da Rutelli a Veltroni, pasticcia con dinamiche che non capisce, sposiziona Repubblica perché protunde sul quotidiano che controlla anziché starsene defilato e lo mutila della sua tradizionale “auto-direzione”.

La classe dirigente inizia a osservare le mosse dell’Ingegnere – ad ascoltarne gli sproloqui serali nelle cene romane di via Giulia – per strologare sulla linea futura di Repubblica. E spesso ci prende. La scomparsa di Caracciolo, nel 2008, con uno Scalfari ormai 83enne, apre ulteriori spazi di ingerenza, sempre ipocritamente rispettosa delle apparenze, per l’ex presidente dell’Olivetti. Ma il 2008 è anche l’anno in cui scoppia la crisi: finanziaria, economica, editoriale. Inizia la china, per tutti i media. La pubblicità crolla, le vendite si decimano, l’Internet gratuito – nel quale peraltro Repubblica svetta, per lucida visione non dell’Ingegnere ma del suo amministratore dell’epoca Marco Benedetto – cannibalizza i prodotti cartacei. Anche Repubblica inizia a perdere lettori, conosce l’onta (transitoria, perché arriva un altro bravo manager, l’attuale a.d. Monica Mondardini) del rosso di bilancio. De Benedetti rimane arroccato alla presidenza. Ma per poco. Arriviamo all’ultimo capitolo, quello del modo in cui, tolstoianamente, la famiglia De Benedetti ha sempre vissuto al suo interno distanze e dissensi profondi. 

In quella fase, solo l’Ingegnere parlava bene di Repubblica e usava il futuro a proposto dell’editoria: i suoi figli epigoni, Rodolfo e Marco (Edoardo, buon per lui, fa il medico in Svizzera), tutt’altro. Non perdevano occasione, nei salotti milanesi, per far capire che, fosse stato per loro, quell’asset l’avrebbero venduto subito. Altri anni da allora sono trascorsi, l’Ingegnere ha fatto il passo indietro del vecchio leone, incapace di gestire il tramonto con lo stile e il distacco dei saggi appagati e consapevoli, chiuso nel suo rancore verso il mondo come in vecchio pastrano, desideroso soltanto di parlar male di qualcuno, purché fosse. L’accordo con gli Agnelli, la manageralizzazione crescente del gruppo, e poi l’estrema decisione: dire addio anche al vertice del gruppo editoriale e dare spazio ai figli, certo non per generosità, e forse con il retropensiero che tanto, prima o poi, sarà la famiglia Agnelli, oggi minoritaria, a giocare l’asso pigliatutto.

La recente intervista al Corriere è un monumento al rancore. E stigmatizzando in pubblico, dalla sua posizione e con una cattiveria perfino volgare, la perplessità che certamente la provocazione di Scalfari – “piuttosto che Di Maio voto Berlusconi!” – aveva suscitato in tanti, De Benedetti ha lanciato la stampella intellettuale contro il luogo cui tanto deve e contro l’uomo che lo ha tenuto nel giro dei potenti anche quando di altri poteri non ne aveva più alcuno. Giusto – e simmetricamente cattivo, ma con la grande attenuante dell’aver agito per una forte necessità aziendale – il commento del figlio editore: mio padre parla per sé, non ci rappresenta più.

Il necessario oggi è che Repubblica torni a rappresentare qualcuno, come seppe fare, alla grandissima, 41 anni fa, nascendo. Per esempio quell’Italia moderata e di sinistra che non può votare né voterà mai Berlusconi, che non sopporta l’idea di dover votare Grillo, che non si fida a votare Grasso, ma proprio non riesce a votare Renzi. 

Auguri: siamo in tanti a sentire la mancanza del nostro giornale, ma ora che è il divorzio da chi l’ha snaturato è proprio compiuto, forse si è posta la premessa del ritorno.