Le dichiarazioni di Luigi Di Maio sulla possibilità di un referendum sull’appartenenza all’euro hanno suscitato molto clamore. Non sappiamo se l’apertura sia solo una mossa elettorale per attirare i voti di protesta e quanto forti siano le convinzioni sull’Europa o sull’opportunità di indire un referendum. Sappiamo però che basta prendere in considerazione l’ipotesi, senza nemmeno condividerla, per essere relegati nel girone dei populisti o dei pazzi; qualcuno si spinge a dire che di queste cose non bisognerebbe nemmeno discutere perché i “mercati” ne hanno paura e la punizione è automatica.
Uscire dall’euro sarebbe ovviamente un danno, oggi, per chi ha risparmi e si troverebbe lire; uscire dall’euro comporterebbe anche problemi immediati per l’economia italiana. Questi però non sono argomenti che dovrebbero avere spazio in una discussione sulla permanenza o meno dell’Italia nell’euro o nell’Unione europea. Non si possono valutare decisioni che hanno conseguenze decennali con gli esiti trimestrali; questo vale sia per gli europeisti che per i “sovranisti/populisti”. Bisogna però chiedersi seriamente come mai emergono queste ipotesi; è troppo comodo salvarsi in angolo dando la colpa all’ignoranza o alla cattiveria del popolino. Soprattutto è quasi sconvolgente registrare come il dibattito sui cambiamenti necessari per salvare l’Europa sia invece all’ordine del giorno nell’Europa che conta e nelle discussioni tra Germania e Francia.
La questione per quanto ci riguarda è posta male e ciò perché si fa finta di non vedere cosa sia accaduto in Europa. Di fronte ai dati sulla disoccupazione greca, sul suo numero spaventoso di poveri, sulla disoccupazione in Spagna, al 17%, sui dati drammatici in ampie fasce dell’eurozona a partire dal sud e dal centro Italia non ci si può non chiedere se per caso ci sia un’alternativa migliore e se questa alternativa non sia fuori da euro e dall’Europa; non vogliamo nemmeno pensare a cosa accadrebbe se al posto della ripresa globale attuale ci fosse una recessione.
Ci si dovrebbe chiedere, onestamente, se per i greci non sarebbe stato meglio uscire nel 2010 quando la disoccupazione era la metà e lo Stato non si era ritrovato obbligato a vendere gli asset migliori a imprese tedesche. I greci dopotutto, con le buone e molto spesso con le cattive, hanno fatto tutto quello che l’Europa gli ha chiesto di fare; chi si fa carico di far ripartire l’economia greca? Chi investe in ponti e strade? Chi apre fabbriche? Se la risposta è nessuno perché la Grecia non è competitiva allora qualcuno ci spieghi perché i greci non dovrebbero provare da soli, riprendendo la sovranità dei propri porti e aeroporti con una dracma svalutata facendo pagare un po’ del conto anche ai creditori che sapevano benissimo a chi prestavano. Certo, nessun greco andrà più in vacanza a New York, però, forse, ci sarebbe meno disoccupazione e ampie fasce della popolazione potrebbero sperare di uscire da una situazione di indigenza che non appassiona l’Europa.
La seconda questione è che l’Europa non si appassiona dei greci, o dei calabresi, perché i greci non votano. Gli unici voti che contano in Europa sono quelli tedeschi, e dei loro alleati, e quelli dei francesi. Le proposte di maggiore consolidamento fiscale in Europa sono state bocciate da Schäuble perché “creano incentivi sbagliati” per quelli come i greci. Oggi si lavora a un rafforzamento degli accordi intergovernativi in cui, di nuovo, contano solo tedeschi e francesi che fanno man bassa di imprese, si godono l’euro basso e danno qualche briciola agli ateniesi esattamente come la danno agli ugandesi.
Chi è per l’euro dovrebbe chiedersi, onestamente, quali siano le possibilità che l’Europa cambi; dovrebbe chiedersi perché tedeschi e francesi, che hanno il potere, dovrebbero rinunciare volontariamente a una situazione che li vede egemoni. Un riequilibrio non potrà mai partire né dalla Grecia, né dall’Italia perché non votano e perché con un paio di colpi di spread si rimettono sull’attenti. I greci, per la cronaca, non saranno mai produttivi come un bavarese, ma questo non significa che si meritino di scomparire e morire di fame perché fanno parte di un’unione fatta a uso e consumo dei bavaresi.
Se le perplessità sull’euro sono una cosa di cui vergognarsi è altrettanto vergognoso fare finta che vada tutto bene e non porsi nemmeno la domanda. Che l’Europa non vada bene non è un segreto e se ne parla amabilmente in Germania e Francia; la questione è se possa e voglia cambiare per il meglio o per il peggio.
Se cambia per il peggio, piccolo corollario, l’Italia non sarà più un problema. Nel senso che non ci sarà più e basta. Le pressioni disgregatrici che questa eurozona impone all’Italia sono evidenti sia in una divaricazione impressionante tra nord e sud italiano, sia nei tentativi più o meno maldestri, come quelli austriaci recenti, di prendersi un pezzo di quello che rimarrà se questo progetto europeo arriverà al suo compimento.