“Per me un doppio hamburger completo, molta maionese e niente cipolla!”: Woody Allen, in uno dei suoi primi e ancora spassosissimi film (Il dittatore dello stato libero di Bananas), è un giovane miliardario americano di sinistra che se ne va in Centro America per unirsi a una brigata di “barbudos”, alla macchia nella giungla tropicale inseguendo il miraggio di una qualche rivoluzione. Fa la fila al rancio e finalmente arriva il suo turno davanti a un enorme cuoco, sporco e sudato, che pesca mestolate di sbobba grigiastra da un unico pentolone. Lui, imperturbabile, avanza la sua richiesta, come se si se trovasse a Manhattan. Il cuoco lo guarda in tralice, e del tutto indifferente alla richiesta gli scodella nel piatto la stessa nauseante mestolata che ha dato a tutti gli altri. Woody Allen esamina il piatto, guarda il cuoco e dice: “Ok, perfetto!”.



È la metafora di quello che hanno fatto negli ultimi giorni Matteo Renzi e Maria Elena Boschi, la coppia di ferro arrugginito del Pd, dopo le audizioni, tutte indubitabilmente nocive per loro due, succedutesi davanti alla Commissione bicamerale d’inchiesta sulle crisi bancarie, riunita in Parlamento proprio per le loro autolesionistiche richieste. 



Ieri in particolare: Federico Ghizzoni, ex amministratore delegato di Unicredit, ha confermato per filo e per segno quel che Ferruccio de Bortoli aveva scritto nel suo libro Poteri forti (o quasi). Maria Elena Boschi gli chiese di valutare l’acquisizione di Banca Etruria, lui la fece valutare e risolse di non procedere perché sarebbe stato un cattivo affare. Dunque Ghizzoni ha confermato che: 1) la Boschi, ministro delle Riforme, priva di qualsiasi mandato a occuparsi del caso Etruria e senza aver informato l’unico ministro che avrebbe potuto parlarne, figlia del vicepresidente della banca, braccio destro del premier, aveva incontrato anche lui, Ghizzoni, nel suo intenso e improprio attivarsi per influenzare le sorti della banca di papà; 2) perfino Marco Carrai, imprenditore fiorentino intimo amico di Renzi, gli scrisse una mail per insistere: “Mi è stato chiesto di sollecitarti…”.



Ebbene, cosa dicono – dopo l’ennesima sbugiardata – Boschi e Renzi? “Quello che doveva uscire è uscito. Ci sarà ancora qualche strascico per un po’ di giorni, ma sostanzialmente questa vicenda è chiusa. È finita”, dice Renzi. Come Woody Allen quando dice “ok” al barbudos che, anziché il richiesto hamburger, gli ha scodellato davanti una mestolata di sbobba nauseante.

In aula, parlando a suo tempo delle prime accuse contro la sua condotta, la Boschi aveva dichiarato: “Io come ministro non ho mai favorito la mia famiglia, non ho mai favorito i miei amici”, “non c’è dunque conflitto d’interessi, non c’è dunque alcun favoritismo, non c’è alcuna corsia preferenziale” nel caso Etruria. Le testimonianze dimostrano oggi che invece ha provato con molti interlocutori diversi di pilotare la banca del padre verso una soluzione diversa da quella che sembrava profilarsi dal mercato. 

Cos’altro c’è da aggiungere? La faccenda delle pressioni che non ci sarebbero state è penosa, si smentisce da sola. Per un ministro in carica parlare riservatamente a un’altra autorità, pubblica o privata, per manifestare una propria preferenza per una determinata soluzione in una vicenda spinosa e ancora aperta significa fare pressioni indipendentemente dalle parole e dai toni. La pressione è nel rapporto asimmetrico tra i poteri, lo capiscono anche i bambini.

In un certo senso Renzi ha ragione, però, quando dice che “il caso è chiuso”: lo è nel senso tecnico specifico, perché, come si sapeva, i fatti emersi dalle audizioni non sono reati; ma sono clamorose gaffe politiche, sono indebite invasioni di campo, sono fallimentari magheggi da apprendisti stregoni. Che indipendentemente dai commenti degli interessati hanno tagliato via una gran parte della loro credibilità, come anche nello stesso Pd in tanti ormai, irritati e preoccupati, riconoscono. E dunque il caso Etruria è chiuso, ma si apre clamorosamente quello della credibilità dell’attuale vertice del partito.

È questa l’unica eredità generata da quel “ventilatore di particelle maleodoranti” che è stato la Commissione. Matteo Renzi ha perso consensi e credibilità alla vigilia di un voto politico cruciale che si profila adesso ancor più incerto e potenzialmente improduttivo di quanto già non sembrasse. Il suo partito è ricaduto, per sua colpa, nelle sabbie mobile delle cattive relazioni con le proprie ambizioni di potere economico. Molti elettori gliene chiederanno conto. Questo non sarà un bene per la possibile governabilità dell’Italia post-voto.