Il rialzo dell’anno più clamoroso del Nasdaq l’ha messo a segno, giovedì scorso, una piccola società già registrata come Long Island Ice Tea Corporation. Ma quella mattina sul tabellone virtuale del listino di Times Square il nome venne cambiato con felice intuizione in Long Blockchain Corporation. Non solo il nome. L’azienda che non aveva mai registrato un profitto nella sua storia, e aveva ceduto un paio di settimane prima le sue attività nei succhi di frutta, decise infatti di “cambiare ramo e di concentrarsi in una società attiva nella ricerca di opportunità di business in grado di creare valore nelle tecnologie blockchain”. Detto fatto. All’esordio, in una sola mattina, il titolo ha messo a segno un rialzo del 500%. Nemmeno troppo, a giudicare da altri casi simili. Rich Cigar, ramo tabacco, ha guadagnato il 2000% in una sola seduta dopo esser entrata nel ramo delle catene di distribuzione del bitcoin. Il record, per ora, appartiene a Longfin: da quando la società ha annunciato di aver acquisito una partecipazione in una società specializzata nella creazione di blockchain (le reti su cui corrono le transazioni dei bitcoin), il prezzo del titolo è cresciuto di dieci volte.



È possibile che questi primari siano destinati a durare a lungo oppure a essere relegati nella storia truffaldina della finanza. Ancor meno di una settimana dopo lo sbarco sul mercato dei derivati di Chicago (il Cme) la folle corsa della moneta elettronica si è fermata di colpo. La criptomoneta, che aveva iniziato la settimana toccando quota 20 mila dollari, ha perso da lunedì quasi il 40% del suo valore arrivando fin sotto quota 11 mila dollari. Secondo la piattaforma Coindesk, la criptovaluta ha segnato un minimo a 10.834 dollari, risalendo poi sopra 12 mila, mentre solo giovedì fluttuava tra 15 e 16 mila dollari. 



La frana si è scatenata all’improvviso mercoledì notte in Corea del Sud, una delle piazze più sensibili al fascino della moneta virtuale, che rappresenta tra il 10 e il 15 per cento della circolazione totale. Ma anche uno dei mercati più esposti perché, come ha detto il ministro delle Finanze, la scommessa sul bitcoin “è molto diffusa tra gli studenti come un mezzo per finanziare gli studi”. Ma nel fatale mercoledì Youbit, una delle piattaforme più diffuse, è stata obbligata a confessare un furto elettronico così pesante che gli ammanchi hanno costretto la piattaforma a chiudere i battenti. Una circostanza abbastanza frequente (almeno una su tre società del ramo subiscono una rapina nel corso del primo anno di attività), ma che, in un momento di crescente attenzione per la moneta virtuale, ha avuto un effetto devastante innescando un ribasso altrettanto rapido dei rialzi. 



È finita qui? Non sentiremo parlare più di Bitcoin? Oppure, com’è accaduto per Internet, travolto dal tracollo iniziale delle dot.com, ma per poi imporsi sia nella vita di ogni giorno che sui listini azionari, la moneta elettronica si prenderà una rivincita? Per Jordan Belfort, meglio noto come il Lupo di Wall Street (ricordate l’interpretazione di Leonardo Di Caprio nel film a lui ispirato?), è buona la prima. “Non discuto la buona fede della stragrande maggioranza degli operatori – ha dichiarato al Financial Times -. Ma sul mercato basta un 10% di imbroglioni e truffatori per far esplodere la truffa del secolo, la più pericolosa di sempre, pur costruita attorno a un castello di algoritmi”. Al di là dei mezzi, sostiene uno che di truffe se ne intende, la tecnica è sempre la stessa. “Eccitare l’immaginazione della gente, aumentare l’autostima grazie ai primi successi, scatenare l’istinto speculativo. Non si deve far altro, perché a quel punto tutti vogliono partecipare al grande gioco. Non c’è nulla di sbagliato in sé nel coltivare tulipani o nel creare algoritmi. Ma, a un certo punto, il sistema ti prende la mano”. 

Forse però è sbagliato buttar via il bambino con l’acqua sporca.  La funzione sociale positiva del bitcoin (così come quella dell’oro) è di offrire comunque un’alternativa alla moneta degli stati, moderandone la voglia di abusare del signoraggio stampando troppa moneta per comprare consenso. Un’alternativa privata al monopolio statale sulla moneta è una forma di biodiversità che può essere interessante preservare oggi che la tecnologia consente di difendersi dagli abusi che, prima o poi, potrebbero condurre a un’inflazione devastante, come quella che si scatenò negli anni Settanta quando gli Stati imposero alle banche centrali di non intervenire sull’eccesso di moneta, necessaria per sostenere lo sforzo bellico Usa in Vietnam. Si sa come andò a finire: Richard Nixon ricorse alla non convertibilità del dollaro nel tentativo di contrastare i deficit gemelli Usa. L’inflazione si prese presto la sua rivincita e ci volle, dopo dieci anni di instabilità, un’azione brusca e dolorosa sui tassi di interesse per far rientrare il genio nella lampada. 

Oggi, si può obiettare, l’inflazione non c’è. O, più probabile, non si vede ma si manifesta nell’esplosione del valore degli assets che solo i super ricchi possono permettersi: i quadri di Leonardo, l’acquisto di Neymar ovvero il controllo dei Bitcoin. Non più di mille persone controllano circa la metà delle monete create con algoritmi complessi e molto dispendiosi sul piano energetico, vista la quantità di corrente necessaria per crearli. Sono loro a creare bolle e sboom a danno dei potenziali utilizzatori. 

In sintesi, l’idea è buona. Ma non è (per ora) nelle mani giuste.