Chi ha vinto le elezioni catalane? Gli indipendentisti con la loro maggioranza assoluta o Ciudadanos, divenuto primo partito della regione? Paradossalmente, ciò che conta è chi ha perso. E qui non vi sono dubbi: Mariano Rajoy. Al netto del risultato del suo Partido popular, ridotto ulteriormente ai minimi termini dal risultato delle urne, è stato l’intero impianto della gestione del caso Catalogna a essere stato respinto dagli elettori, i quali hanno infatti scelto l’opzione Ciudadanos per mandare un segnale unionista al voto: il 52% dei catalani, infatti, non vuole l’indipendenza e per dimostrare il suo legame politico e statuale con Madrid non ha scelto il partito del premier. Più chiaro di così, appare difficile esprimersi.
Certo, Rajoy ha pagato gli eccessi della Guardia Civil nei seggi il 1 ottobre, l’azzardo dell’articolo 155 attivato per la prima volta nella storia, l’incarcerazione di tutto il governo catalano, ma la conferenza stampa che ha tenuto ieri è parsa una resa, più che una presa d’atto, il cupio dissolvi di un leader a metà che ora avrà come primo problema la resa dei conti all’interno del partito, più che la mediazione con Barcellona. La quale, dal canto suo, difficilmente potrà proseguire sulla strada oltranzista scelta da Carlos Puigdemont, non fosse altro per i segnali che giungono dall’economia: toccherà mediare e non sarà un processo facile. Ma, onestà per onestà, la Catalogna non è un problema, perché come anticipato il voto di giovedì è stato di fatto un proxy, uno stress test del terzo voto politico in meno di un anno che temo la Spagna dovrà affrontare la prossima primavera, stante l’equilibrio precario della maggioranza di Rajoy, di fatto retta finora dai socialisti proprio in virtù dell’emergenza nazionale scaturita dal referendum catalano del 1 ottobre.
L’appoggio proseguirà o si coglierà la palla al balzo per togliere lo sgabello da sotto i piedi di un Rajoy in attesa di impiccagione politica? A quel punto, se sarà davvero di nuovo crisi di governo e ritorno alle urne, i mercati potrebbero non restare relativamente calmi come hanno fatto ieri, non fosse altro per la quasi certa concomitanza del voto iberico con quello italiano, anch’esso non certamente destinato a svolgersi in un clima di serenità, come ci ha mostrato il diluvio di fango fuoriuscito dalla Commissione d’inchiesta sulle banche. E primavera sarà anche tempo di rese dei conti economiche, perché si capirà il destino reale del Qe, ma, soprattutto, quello dell’addendum sugli Npl, partendo dal presupposto che per allora la Germania avrà un governo e la priorità sarà divenuta la successione di Mario Draghi alla guida della Bce, atto tutt’altro che formale e che già oggi ci regala una certezza: dopo la stagione dell’espansionismo monetario, toccherà a quella di un falco del rigore. Sia esso Jens Weidmann o meno. E per noi non saranno ore liete, chiunque esca vincitore dalle urne, al netto di una legge elettorale nata apposta per non averne.
Insomma, un potenziale flashpoint politico-economico pronto a svilupparsi nei due Paesi più importanti del cosiddetto Club Med. A cui, però, rischia di unirsi un accelerante all’incendio doloso potenziale: la questione polacca, di fatto punto di equilibrio o di rottura con i Paesi dell’Est, il cosiddetto Gruppo di Visegrad. Non fosse bastata la disputa sulle quote di ripartizione dei migranti, infatti, fra Varsavia e Bruxelles è esploso il caso del cosiddetto articolo 7, ovvero la decisione dell’Unione europea di attivare un processo pre-sanzionatorio verso il governo polacco per le sue presunte violazioni dei valori europei, in primis la riforma della giustizia che eliminerebbe il principio di autonomia della magistratura e la confinerebbe totalmente sotto il controllo dell’esecutivo. In caso Varsavia non ponga rimedio entro tre mesi, l’Unione potrebbe quindi attivare l’articolo 7, applicando sanzioni contro il Paese, fino alla sospensione dal diritto di voto in sede comunitaria.
E qui casca l’asino. Se infatti il processo pre-sanzionatorio necessita dei due terzi dei voti per essere deciso, la sua implementazione necessità l’unanimità e proprio ieri il premier ungherese, Viktor Orban, ha detto ufficialmente che si opporrà a qualsiasi decisione punitiva verso Varsavia. Di fatto, opzione già neutralizzata in fieri. Di più, nonostante la diffida di Bruxelles, il governo polacco è andato avanti come un treno con l’iter di approvazione della legge contestata, aprendo un fronte diretto di scontro con le autorità europee. Certo, ora ci sono tre mesi per discutere e mediare, ma i sondaggi parlano chiaro: i cittadini polacchi, per la maggior parte, stanno con il governo e l’appeal dell’Ue nel Paese sta precipitando nei consensi.
Siamo di fronte a un potenziale Estexit dall’Unione, di fatto la pietra tombale? Qualche presupposto serio esiste, inutile negarlo. E l’Ue si fa forte di un unico elemento qualificante: il fatto che uno dei suoi uomini più potenti e rappresentativi, il presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, sia polacco, quindi destinato al ruolo di mediatore naturale per evitare lo strappo. Ma lo scambio di cortesie fra quest’ultimo e Jean-Claude Juncker non più tardi della settimana scorsa sul tema dei migranti potrebbe non essere affatto un gioco della parti, ma la spia di un malessere che cova sempre più profondo. Unite a questo il fatto che, stranamente, l’intero blocco Est dei Paesi europei giovedì si sia astenuto nel voto su Gerusalemme capitale di Israele all’Onu, di fatto chiamandosi fuori dalla sfida pressoché globale agli Usa e alla loro politica internazionale e qualche dubbio sorge, perché potrebbe sostanziarsi nella scelta strategica di ricerca di un alleato forte in caso di rottura con Bruxelles. E gli Stati Uniti non vedono l’ora di poter mettere becco nell’ex Unione Sovietica, restituendo al tempo stesso lo sgarbo all’Ue.
Ci aspetta una primavera davvero scoppiettante. Altro che Catalogna.