Nonostante la leggera ripresa economica in atto, il 2017 termina male per l’Europa: in seguito a un referendum vinto per una manciata di voti, la Gran Bretagna si distacca del resto dell’Unione europea tramite un negoziato che si profila lungo e complesso; negli ultimi mesi dell’anno si è accentuato il contrasto tra il “Gruppo di Visegrad” (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria) e il resto delle istituzioni europee su materie gravi (dall’immigrazione all’unione bancaria), quasi alla vigilia di Natale giungono i risultati delle elezioni in Catalogna, che promettono grandi tensioni in Spagna, tali da diffondersi nel resto degli Stati meridionali dell’Ue. Su questi problemi “interni” all’Ue, si innescano due temi che non potranno non avere effetti sull’Unione: da un lato, la riforma tributaria varata negli Usa riduce la competitività relativa delle imprese europee rispetto a quelle Usa, da un altro, sotto il profilo sia commerciale sia degli investimenti, la Cina sta diventando sempre più aggressiva verso un’Unione nei cui confronti ha antiche recriminazioni (il passato coloniale, la “guerra dell’oppio”) e che vede come un mercato in attesa di essere conquistato e da cui carpire tecnologia.



Cosa può fare l’Italia in questo contesto? In passato – dagli anni Sessanta alla fine degli anni Ottanta – l’Italia aveva il ruolo dell’honest broker, il mediatore “onesto” in grado di trovare soluzioni adeguate quando Repubblica federale tedesca, Francia e Gran Bretagna (i principali azionisti) erano ai ferri corti, grazie alla professionalità e alla capacità della nostra diplomazia (sia della Farnesina, sia di via Venti Settembre). Ora il quadro politico è cambiato. Da Tangentopoli e dall’inizio di quella che viene chiamata la Seconda Repubblica la nostra autorevolezza in Europa è diminuita, negli ultimi anni ha subito un crollo verticale, aggravato negli ultimi mesi dalle vicende bancarie (basta scorrere le corrispondenze sarcastiche da Roma sulla stampa estera del pasticciaccio brutto di Banca Etruria).



Ciononostante, se dalle prossime elezioni politiche uscirà un quadro stabile con un Governo autorevole e un Parlamento coeso – ipotesi che i sondaggi non ritengono probabile, ma il periodo natalizio fa pensare ai miracoli -, l’Italia nel 2018 potrebbe tornare ad avere un ruolo centrale invece di quello subalterno e subordinato di buona parte dell’ultima legislatura quando barattavano flessibilità per provvedimenti elettorali in cambio di una sana politica immigratoria europea.

Come potrebbe articolarsi questo ruolo? In primo luogo, dovrebbe formulare una proposta per l’unione monetaria, diventata il cuore stesso dell’Ue. Il tema immediato è il Fiscal compact. Pochi ricordano che, in base all’art. 16 dell’accordo intergovernativo alla sua base, il Compact scade, nelle forme in cui è stato predisposto nel 2012, alla fine dell’anno. Secondo la norma, “sulla base di una valutazione della sua attuazione”, si dovrà decidere se inserirlo nel “corpus” di base dei trattati europei o se modificarlo.



La Commissione europea ha proposto di inserirlo, tale e quale, nelle “Direttive europee”. Per numerosi Stati dell’Ue, questa sarebbe l’ipotesi meno auspicabile, specialmente per l’Italia. Da un lato, al pari di altre “Direttive”, sarebbe fonte di continui contenziosi. Da un altro, non risolverebbe il nodo di fondo: l’equilibrio strutturale di bilancio aggraverebbe potenziali stagnazioni e recessioni (come si è visto negli ultimi anni). Da un altro ancora, non risolverebbe due aspetti specialmente seri per numerosi Stati dell’Unione.

Il primo riguarda il trattamento dell’investimento pubblico (le spese per opere pubbliche sono passate dal 3% del Pil negli anni Novanta a meno dell’1% negli ultimi tempi e andamenti simili si hanno in altri Stati dell’Unione, anche nella Repubblica Federale): se ai fini del computo del disavanzo, gli investimenti pubblici non vengono scorporati, ci si condanna a infrastrutture carenti con la conseguenza di stagnazione e bassa produttività. Il secondo è l’obbligo per i Paesi con un debito sopra il 60% del Pil (il nostro supera il 130%) di ridurre l’eccedenza di un ventesimo ogni anno. Quando venne istituito con il Trattato di Maastricht, il parametro del 60% non era altro che il valore medio dei paesi aderenti all’Unione. Oggi, a fronte dei risultati di crescita non certo brillanti di un quarto di secolo di politiche economiche europee, il valore medio è aumentato fino al 90%. In queste condizioni, e a fronte delle incidenze ancora maggiori che si riscontrano in Giappone e negli Stati Uniti, sarebbe ragionevole proporsi obiettivi più realistici.

Su questi due punti sarebbe possibile trovare una convergenza con altri Stati dell’Ue, non accantonare il problema – come sembra potersi interpretare dalla proposta della Commissione Ue -per ritirarlo fuori in caso si voglia bacchettare questo o quel trasgressore, in quel momento inviso ai “poteri-che-si-ritengono-forti” dell’Ue.

Unitamente a una revisione del Compact si dovrebbe proporre un accordo europeo per una riduzione del debito pubblico, con proposte esplicite per quanto attiene il nostro fardello; tali proposte possono essere tratte (con i dovuti aggiornamenti) da quelle formulate dal Cnel e dalla Fondazione Astrid al tempo dell’ultimo Governo Berlusconi e del Governo Monti. Inoltre, si deve meglio articolare il principio di sussidiarietà, devolvendo funzioni presesi dalle istituzioni a Stati, Regioni e Comunità in un quadro di federalismo competitivo, e consolidare le agenzie europee proliferate in questi anni. Ho già ricordato che una ventina di anni fa, nel saggio “Europe simple Europe strong”, Frank Vibert della London School of Economics è giunto a conclusioni simili tramite un percorso differente. Non è stato ascoltato. Con le conseguenze che oggi si toccano con mano: un’Europa litigiosa e che poco conta nell’agone mondiale.

L’osso duro è la politica dell’immigrazione, dove sarà difficile trovare un equilibrio tra interessi nazionali e solidarietà.