La cessione di Farbanca dalla Popolare di Vicenza in liquidazione al gruppo finanziario cinese Cefc ha trovato sui media poco più dello spazio di una notizia in breve. Eppure ha in sé più di uno spunto rilevante: soprattutto all’indomani della conclusione dei lavori della commissione parlamentare d’inchiesta sulla crisi bancaria. Un appuntamento completamente sprecato ai fini di comprendere quale sia il presente e quale potrà essere il futuro del sistema italiano.
Farbanca è una banca innovativa di nicchia, fondata da un gruppo di farmacisti bolognesi una ventina d’anni fa. Opera solo su canali virtuali (telefono e web) e l’ultimo bilancio disponibile (2016) parla di attività totali per 620 milioni (essenzialmente prestiti), un utile di 4,8 milioni e i parametri patrimoniali in zona di sicurezza. Insomma: una banca in ordine. Farbanca è stata dapprima agganciata alla Cassa di risparmio di Bologna, poi le ondate di fusioni l’hanno portata dentro il gruppo Intesa Sanpaolo, prima del subentro della Popolare di Vicenza al 70%.
È questa quota che i tre liquidatori della PopVi, in azione da luglio, hanno messo prontamente in vendita al fine di recuperare in fretta ogni risorsa possibile per soddisfare almeno in parte i 110mila soci che nel crack hanno perso tutti i loro investimenti. Le cronache dicono che c’erano almeno due altre manifestazioni d’interesse italiane: ma ha prevalso (per una sessantina di milioni) la candidatura cinese. E la prima notizia è per la prima volta il Dragone acquisisce il controllo di una banca italiana: salvo, naturalmente, pareri contrari da parte della vigilanza della Banca d’Italia.
Cefc è una holding d’investimento al centro di differenti attenzioni da parte dei media finanziari. Basata a Shanghai, è entrata in meno di un quindicennio nella classifica globale Forbes 500, anche se continua a finanziare parte delle sue attività a debito. Fra gli investimenti spicca quello da 9 miliardi di dollari nel gigante energetico russo Rosneft, oltre all’intervento in un gruppo assicurativo nella Repubblica Ceca. Cefc è in ogni caso una delle innumerevoli “armate” di ogni natura e dimensione, fra pubblico e privato, con i quali l’asse Pechino-Shanghai” intende dar corpo all’iniziativa geopolitica battezzata “Nuova Via della Seta”.
Da tempo la Cina ha segnalato il suo interesse strategico per le istituzioni finanziarie italiane (anzitutto Generali e Intesa Sanpaolo, con piccole quote detenute direttamente e amichevolmente dalla banca centrale). Altrove in Europa la partita è più impegnativa e meno diplomatica: il fondo cinese Hna ha appena iniziato a ritirarsi dall’investimento che l’aveva portato ad essere il primo azionista di Deutsche Bank con poco meno del 10 per cento. I cinesi avevano partecipato in modo sostanzioso anche all’aumento di capitale cui DB si era vista costretto: ma non è bastato a convincere né l’establishment di Francoforte né il governo di Berlino. Così, anche dietro i rumor della campagna anti-corruzione avviata dal leader cinese Xi Jinping, Hna ha tolto l’assedio.
Farbanca sembra l’esatto contrario dell’assalto a Deutsche Bank, ma non lo è del tutto. Non è diverso il valore della licenza bancaria emessa in un Paese Ue. È molto diverso invece l’approccio strategico della banca italiana, intessuto di fintech e orientato ai servizi finanziari evoluti di una rete commerciale specializzata come quella delle farmacie. Detto questo è improbabile che le rotte della Farbanca con gli occhi a mandorla incroci quelle di Alibaba. Ma le banche italiane, affannate ultimamente a rincorrere tutto ciò odora di “digitale”, si sono mosse finora con più lentezza di quanta ne stia dimostrando un investitore cinese sul loro stesso mercato. E almeno stavolta nessuno osservatore si è azzardato a parlare di “avvoltoi” anche se, tecnicamente, Cefc lo è stato: affacciandosi all’asta delle spoglie della Popolare di Vicenza (così come il fondo di private equity Attestor si è aggiudicato Bim dai liquidatori di Veneto Banca).
In attesa di seguire gli sviluppi, un paio di domande. Perché la Popolare di Vicenza, dopo averla acquistata, non ha mai pensato di lavorare a fondo sulle possibilità d’impresa offerte da Farbanca? E perché i membri della commissione Casini non l’hanno chiesto all’ex presidente Gianni Zonin? Avrebbe probabilmente risposto “non so, non ricordo” come a quasi tutte le domande sul disastroso dissesto di Vicenza. Ma sarebbe stato egualmente chiaro che il loro errore più scellerato non è stato seguire le vie della finanza scellerata: è stato ignorare che c’era la via – non scellerata – di sviluppare un’impresa bancaria, cosa molto diversa dalla speculazione finanziaria. Dieci anni dopo lo scoppio della crisi bancaria globale è una lezione ancora faticosa da apprendere: anche in Italia.
I casi Mps, Etruria, Vicenza, Veneto Banca, Banca Marche, ecc. sono gli effetti, non le cause, di una crisi strutturale e culturale, non di un mega-incidente di percorso sui mercati finanziari.