Nel bailamme delle metriche con cui la statistica ci racconta la realtà, il Santo Stefano è stato amareggiato da un dato diffuso da Unimpresa: 9,3 milioni di italiani sono a rischio povertà. Precisamente, si tratterebbe di 9 milioni e 347 mila concittadini che – recitava di buon ora la nota dell’associazione, planando sulla scrivania di redazioni torpidamente alla ricerca di qualche notizia per il primo giorno di ripresa del lavoro – “non ce la fanno”. Modesti gli echi dell’annuncio: i giornaloni ne hanno parlato poco. Perché in questi casi scatta l’anticorpo: “Ma chi sono, questi, a che titolo parlano?”.
Cerchiamo di capirci. Innanzitutto, Unimpresa è un’associazione di “micro, piccole e medie imprese”, con oltre 100 mila iscritti in Italia – dichiarati – e una presenza nazionale fortemente addensata nel Centro-Sud: il che non è un difetto, semmai rappresenta un “punto di vista” differente da quelli dominanti. Poi non è “tuttologa”, il che è un bene: concentra le sue analisi nei settori della politica economica e del welfare, senza strafare e senza bombardare i media. Insomma, una voce pacata e analitica. Poi, si sa, la statistica è la “media del pollo”, non va mai dimenticato e anzi va ripetuto, consapevoli che gli statistici saggi sono i primi a riconoscerlo e a diffidare delle strumentalizzazioni che sistematicamente la politica fa dei loro dati. Quindi ogni lettura e rilettura dei dati è lecita, ciò che è difficile discutere è la base dei dati stessi, condivisa a livello internazionale dagli istituti nazionali di statistica che lavorano con i vari organismi sovranazionali di analisi e gestione dell’economia, dall’Eurostat al Fondo monetario internazionale all’Ocse… Ed è difficile che sui criteri con cui i dati vengono prelevati dalla realtà e che sono condivisi dai signori della statistica si aprano crepe.
Dunque, nel merito: Unimpresa dice che dal 2016 al 2017 si è estesa in Italia l’area delle persone “che non ce la fanno” e che sono a rischio povertà. Un dato che contraddice la vulgata un po’ trionfalistica – tardo-renziana, viene da dire, perché non la si può addebitare al pacatissimo governo Gentiloni – della ripresa economica galoppante. Ma è interessante vedere come fa Unimpresa a estrarre questo dato partendo dai dati Istat.
Dunque, seguendo il ragionamento dei loro analisti, emerge che i nuovi poveri sono gli occupati precari e a tempo (e reddito) limitato. Che non sono più formalmente disoccupati, perché un lavoretto ce l’hanno, quindi non sono più assistiti dal welfare (ammesso che lo siano mai stati), ma guadagnano troppo poco, o troppo irregolarmente. Tra le fasce fragili risalta quella dei lavoratori “a termine”, che per esempio non potendo fornire garanzie di sorta sul lungo periodo non sono ammessi ai mutui immobiliari, né al credito al consumo. Si tratta di 2,5 milioni di persone, di cui moltissimi part-time (803mila), che quindi percepiscono uno stipendio ridotto, oltre che con prospettive incerte, ma anche quelli a orario pieno (1,71 milioni) che sanno però di non avere certezze di lungo termine.
A questi gruppi Unimpresa aggiunge i lavoratori autonomi part-time (791mila), che poi è gente che non riesce a lavorare quanto vorrebbe perché ha poca domanda, e i collaboratori (284mila). E poi individua un’altra vastissima fascia di persone, che definisce “lavoratori a tempo indeterminato part-time involontario”, cioè gente che non riesce a lavorare per tutto l’orario completo di legge perché le imprese nelle quali sono inseriti non glielo consentono, avvalendosi a tal fine di tutte le modalità consentite dalla legge. Basti pensare alla Cassaintegrazione o alle varie formule di solidarietà, che non mettono in discussione il posto fisso, ma riducono lavoro e salario, senza ovviamente chiedersi se e come quel salario ridotto basti alle esigenze degli interessati… Il totale dei disagiati così calcolato ammonta a 6,27 milioni di unità. Che, sommati all’area dei disoccupati, conduce a quell’impressionante cifra totale di 9,34 milioni di persone a rischio povertà.
È una visione fosca, troppo “di parte”? Non si direbbe, a giudicare dall’andamento incostante dei consumi, che riflettono appunto l’insicurezza sul domani e la inadeguatezza del potere d’acquisto che affligge tanti. “Le aziende italiane hanno bisogno di risorse e incentivi per crescere e svilupparsi dunque per avere i presupposti necessari a creare nuova occupazione”, ha commentato il presidente di Unimpresa, Giovanna Ferrara: “C’è bisogno di più lavoro per gli italiani: in questo senso, vanno accolti con favore tutti gli strumenti e le misure volte a rendere meno onerose le assunzioni di lavoratori, meglio se si tratta di interventi strutturali e non di aiuti una tantum. Riteniamo sbagliato insistere con forme di sussidio, perché strumenti come il reddito di inclusione alimentano l’assistenzialismo e disincentivano, di fatto, la crescita economica. I poveri non vanno lasciati nella loro condizione”.