Entriamo nel gioco reale, nel non detto relativo a Bitcoin. Se infatti, sul finire di settembre, fu la Cina ha lanciare l’allarme, bloccando prima il trading con la cryptovaluta e poi le ICO (Initial Coin Offering), sono stati due gli eventi a sostanziare i crolli delle ultime settimane: l’allerta e i blocchi della piattaforme di trading giapponesi e sudcoreane e il lancio della trattazione di futures su Bitcoin alla Borsa di Chicago. Ovvero, la bolla è divenuta tale soltanto quando è passata dalla dimensione crypto a quella “reale” e regolamentata. Quindi, c’è da chiedersi se sia la sua natura virtuale a rappresentare il problema e il potenziale pericolo o il processo di integrazione di questa nei meccanismi finanziari che conosciamo: Bitcoin è la malattia o il sintomo? E perché, visti i numeri, il potenziale devastante della bolla è stato lasciato crescere a dismisura da istituzioni e regolatori, prima che si dicesse una sola parola al riguardo? Davvero tutti schifavano la cryptovaluta, la ignoravano, salvo saltare in sella con i futures, cercando di fare miliardi nel giro di pochi minuti con il più classico dei pump and dump sulle valutazioni?



Il problema di Bitcoin è triplice. Primo, ormai è un collaterale “classico” utilizzato in operazioni open market assolutamente regolamentate. Secondo, ha introdotto nel sistema narcotizzato dal Qe globale ciò che i mercati temono di più, ovvero il ritorno del concetto stesso di volatilità, totalmente assente ormai da trimestri e trimestri. Terzo, Bitcoin è già utilizzato ampiamente in operazioni di natura coperta, sia a livello finanziario che geostrategico.



E partiamo da quest’ultimo concetto, basandoci su questo grafico: da più parti, Washington in testa, si ha il sospetto che la Corea del Nord utilizzi proprio Bitcoin per by-passare le sanzioni internazionali impostegli contro. Oltretutto, con il forte sospetto che la natura stessa di Bitcoin e della sua trattazione sia legata a doppio filo con attività di hackeraggio, altro incubo della geopolitica del nuovo millennio, vedasi il Russiagate. Quindi, Bitcoin è di fatto un comodo alibi pret-a-porter per accuse di destabilizzazione e cyber-war, quando queste dovessero diventare necessarie. Anche per questo è stato lasciato sedimentare o declassato per mesi al rango di “bolla”, di schema Ponzi per cercatori di rapide fortune: perché operativamente, sulla blockchain può circolare qualcosa di più del concetto di valuta senza intermediazione delle Banche centrali. Può circolare la chiave delle guerre future, giocate su più piani. Se necessario. E, di fatto, tutte virtuali. Il punto uno, poi, è strettamente collegato al due.



Di fatto, Bitcoin oggi non è già più il progetto originario che era, se non nelle cronache come al solito a scoppio ritardato dei quotidiani: non è né una valuta, né una tecnologia. È un investimento e un collaterale per prodotti derivati. Anzi, nel secondo caso, un manicotto che eviti che questi ultimi esplodano per troppe falle e per una certezza che nessuno ha denunciato: è tornata, in grandissimo stile, la penuria di dollari sui mercati. Quindi, occorre collaterale di altra natura a garanzia. Piaccia o non piaccia. Che questo sia sicuro oppure no. Sapete perché c’è tanto clamore attorno alle percentuali dei cali di valutazione di Bitcoin, quasi fossimo a un altro 1929? Perché nessuno ha considerato l’enorme impatto della finanza tradizionale che ha scelto Bitcoin come primo prodotto generato dalla blockchain su cui costruire un ecosistema di prodotti derivati e fondi di investimento. Ciò che realmente è accaduto e che accade tutt’ora è che Bitcoin si è trasformato da moneta decentralizzata in collaterale per prodotti derivati o quota di investimento per fondi pubblici e privati in maniera massiccia: non è una bolla esplosa o che sta esplodendo, è solamente un proxy della messe di schifo che i mercati regolamentati hanno prodotto in questi anni post-crisi e di espansione monetaria e debitoria.

Cosa lo dimostra? Semplice, la reazione all’ennesimo comunicato di fallimento della Bank of Japan, totalmente ignorato dai mercati “sani” e ufficiali. Ovvero, messi in prospettiva i valori in campo, i miliardi di capitalizzazione bruciati da Bitcoin queste settimane sono solo frazionari di ciò che in questi anni le Banche centrali hanno “prodotto” a livello di valuta tradizionale: stiamo trattando uno schizzo di fango come fosse una alluvione, non capendo che il problema è il grande fiume e non il tombino intasato. E qui il terzo punto, la volatilità. Bitcoin, infatti, è finito sui giornali semplicemente per la sua capacità di passare da -20% a +30% nell’arco di minuti, forse secondi: volatilità allo stato puro. Proprio il concetto che tutte le banche d’affari mettono in testa ai tail risk: se torna la volatilità, anche a livelli non enormi, a causa dell’aumento anche minimo dei tassi e si innesca in mercati narcotizzati da anni e abituati alla calma più totale, ciò che dieci anni fa si sarebbe sostanziato in uno shock sistemico, ora diventerebbe una tempesta perfetta.

Di questo si ha paura, non tanto delle finalità speculative di Bitcoin, visto che l’intero casinò finanziario mondiale si basa sulla speculazione: quelle ondate di vendite e acquisti sono altrettanti stress test virtuali di ciò che accadrebbe alla catena di controparte della finanza reale: bond, equity, valute, Etf, derivati. Tutto. Paradossalmente, la natura tumultuosa di Bitcoin è un calmante per i mercati reali, i quali possono vivere all’ombra della grande emergenza, cercando una via d’uscita silenziosa: non a caso, la cryptovaluta è già diventata collaterale per prodotti derivati, ovvero la quinta essenza del concetto di sintesi finanziaria.

E perché è stato il Giappone a lanciare l’allarme? Perché è geopoliticamente al centro del possibile progetto di estensione della crypto-war globale e perché è finanziariamente un Paese morto, di fatto in default e costretto a vivere di esperimenti faustiani: non solo le piattaforme di trading crypto ma anche le sale trading tradizionali hanno seguite le ultime settimane di performance di Bitcoin ed Ethereum e hanno detto una sola cosa: il modello non regge, basta uno scostamento reale e salta davvero tutto. Quindi, meglio lanciare il più classico degli “al lupo, al lupo” e prendere tempo. Oltre a guadagnarsi un alibi. Ma basterà?

(2- fine)