Gli ultimi giorni di borsa aperta del 2017 stanno avendo come protagonista il rialzo del prezzo del petrolio. Sono bastati un paio di guasti a due oleodotti per un mini rally che pochi si attendevano. Il Brent ha ampiamente passato i 65 dollari al barile, un livello che non si vedeva dal 2015. Fare previsioni sull’andamento del prezzo del petrolio è un esercizio molto complicato; nessuno nel 2014 aveva previsto un crollo che in pochi mesi aveva portato i prezzi a perdere più del 60%. Allo stesso modo solo sei mesi fa pochissimi prevedevano il recupero a cui abbiamo assistito nelle ultime settimane. Il mantra che è stato ripetuto negli ultimi anni tra gli esperti del settore, “lower for longer” (prezzi bassi per un lungo periodo di tempo), forse rischia di non essere più valido.



Negli ultimi anni ci siamo abituati a prezzi molto bassi che hanno impattato un’infinità di settori. Le variazioni del prezzo del petrolio significano molto di più di un aumento del costo del pieno. La plastica con cui si producono le automobili è un derivato del petrolio esattamente come la moquette che calpestiamo o i vestiti che indossiamo. Intere regioni, il Medio Oriente ma non solo, dipendono quasi interamente dal petrolio per la propria economia. Anche in Italia migliaia di ingegneri vengono pagati da società che vendono servizi per l’industria petrolifera. 



L’assunto iniziale che il crollo dei prezzi sarebbe stato un enorme regalo ai consumatori di tutto il mondo è stato messo in discussione: gli economisti non hanno trovato particolari evidenze di grandi benefici economici derivati dal crollo dei prezzi. Se il maggiore costo che i consumatori pagano quando fanno benzina si trasferisce in stipendi per ingegneri, il saldo è sostanzialmente neutro.

Le variabili che oggi si prendono in considerazione per prevedere l’andamento futuro sono molteplici. La coesione dei membri dell’Opec nel mantenere i tagli alla produzione viene oggi data per scontata ed è improbabile che su questo versante cambi qualcosa. La produzione di petrolio negli Stati Uniti è un’altra variabile fondamentale; il dibattito sul prezzo di equilibrio dello “shale oil” sembra un racconto del mistero ed è oggi la maggiore variabile “industriale”. Se i rialzi del prezzo del petrolio a cui abbiamo assistito negli ultimi mesi non si traducessero in aumenti della produzione si confermerebbe la tesi di chi sostiene che produrre petrolio negli Stati Uniti sia meno conveniente di quanto sembri. La delusione potrebbe sostenere gli ultimi rialzi e alimentarli ulteriormente. L’ultima variabile sono le tensioni geopolitiche in Medio Oriente. L’area si sta riscaldando con il peggioramento delle relazioni tra Iran e Arabia Saudita, a sua volta alle prese con le conseguenze di una guerra estenuante in Yemen e con le tensioni interne. 



È assolutamente possibile che il rialzo dei prezzi continui magari dopo una fase di assestamento dopo i rialzi repentini degli ultimi giorni. Non è detto che siano per forza notizie negative purché non si arrivi a eccessi al rialzo che al momento sembrano esclusi. In uno scenario di questo tipo continuerebbero anche gli investimenti sulle energie rinnovabili. L’epilogo finale non sarebbe un mondo senza gas e petrolio, ma un mondo in cui gas e petrolio non sono più, come ora, l’unica variabile che conta.