«Abbiamo rimesso l’Italia in carreggiata», hanno dichiarato – a poche ore uno dall’altro – Matteo Renzi e Paolo Gentiloni nel giorno che ha segnato, di fatto, la fine della legislatura e l’inizio ufficiale della campagna elettorale. È vero? No. E lo sanno anche loro. Anzi, lo sanno per primi: se qualcuno ha salvato qualcosa, quello è Mario Draghi. Il governo italiano, declinato nelle sue varie presidenze dal 2011 a oggi, si è limitato a gestire più o meno male l’esistente quotidiano, con un unico comun denominatore: l’aumento del debito pubblico. Le fotografie sociali dell’Istat, d’altronde, sono lì a ricordarcelo periodicamente. E appare tutt’altro che una coincidenza il fatto che, mentre Paolo Gentiloni teneva la sua ultima conferenza stampa prima dello scioglimento delle Camere, la Bce, attraverso il suo bollettino mensile, facesse il punto della situazione.
Vediamolo, per sommi capi: «L’espansione economica nell’area dell’euro continua a essere sostenuta e generalizzata nei diversi Paesi e settori. La crescita del Pil in termini reali è sostenuta dalla crescita dei consumi privati e degli investimenti, nonché dalle esportazioni, che beneficiano della ripresa generalizzata a livello mondiale. I risultati dell’ultima indagine e i dati più recenti confermano una robusta dinamica espansiva». Insomma, Bengodi o poco ci manca. Anzi, più che Bengodi, un enorme Sert a cielo aperto per distribuire morfina e metadone. Nonostante ciò, infatti, la Bce sottolinea come «il Consiglio direttivo nella sua ultima riunione abbia deciso di lasciare invariati i tassi di interesse di riferimento, attendendosi che rimangano sui livelli attuali per un prolungato periodo di tempo, e ben oltre l’orizzonte degli acquisti netti di attività… Un ampio grado di accomodamento monetario è ancora necessario per assicurare un ritorno dell’inflazione verso livelli inferiori ma prossimi al 2%».
Insomma, in perfetto stile Bank of Japan, la Bce ci dice che va talmente tutto a meraviglia che occorre continuare con la cura da cavallo messa a punto finora: a casa mia, quindi, non si tratta di paziente guarito, ma di paziente mantenuto sotto sedazione. È stabile, certo, ma grazie ai farmaci: se qualcuno dovesse dirgli di staccare tubicini e macchine per andare finalmente al bagno da solo, sarebbe in grado? L’Eurotower dice no, chiaro e tondo, quando parla di “ampio stimolo” ancora necessario: il Qe, vi ricordo, a questo punto dovrebbe essere stato statutariamente chiuso, con l’inflazione al 2% e i debiti sovrani in grado di prezzare sul mercato senza bisogno di sostegno. Nulla di questo è in atto. Nulla. E, anzi, si è dovuto allungare il termine del programma, gettando il fumo negli occhi della riduzione del controvalore di acquisti, di fatto solo una necessità tecnica vista la scarsezza di Bund disponibili all’acquisto e il nein preventivo della Bundesbank a maggiori emissioni rispetto a quelle già programmate.
Vediamo qualche altro numero di fine anno. Nel terzo trimestre del 2017, il Pil in termini reali, ricorda la Bce, «è salito dello 0,6% sul periodo precedente, dopo un aumento dello 0,7% nel secondo trimestre. La domanda interna, in particolare la spesa per investimenti fissi, ha continuato a fornire il principale contributo, coadiuvata, in misura minore, dalle esportazioni nette e dalla variazione delle scorte. Dal lato della produzione, l’attività economica si è espansa, con una forte crescita del valore aggiunto nell’industria (escluse le costruzioni) e una crescita lievemente inferiore nei settori delle costruzioni e dei servizi». Reggerà l’export, a fronte di un dollaro che ieri è letteralmente crollato e a una riforma fiscale di Trump destinata a fare male – e non poco – all’economia dell’Ue?
E al netto dell’undershooting del biglietto verde sull’euro, di per sé sempre pericoloso come dinamica, posso anticiparvi senza timori che l’inizio del 2018 – diciamo, la primavera – porterà con sé non un miglioramento ma un aggravio alla voce costruzioni, nella fattispecie una crisi immobiliare che porterà all’esplosione della bolla in Svezia e soprattutto Portogallo, quest’ultima possibile detonatore per una nuova crisi legata alle espostissime banche spagnole. Chi tamponerà, per l’ennesima volta? La Bce, ovviamente. Peccato che se davvero salterà la bolla, con essa ci dirà addio anche l’investment grade sovrano portoghese, spingendo Lisbona in area greca di impossibilità di acquisto dei suoi bond da parte della Bce: attenzione a questa dinamica, sarà la prossima grana di cui l’Europa – come sempre – si accorgerà troppo tardi.
Nel bollettino sono poi state ribadite la nuove stime su Pil e inflazione comunicate lo scorso 14 dicembre dal presidente, Mario Draghi, nel corso dell’ultima conferenza stampa: le proiezioni macroeconomiche per l’area dell’euro formulate a dicembre dagli esperti dell’Eurosistema, si legge nel bollettino mensile, «prevedono una crescita annua del Pil pari al 2,4% nel 2017, al 2,3% nel 2018, all’1,9% nel 2019 e all’1,7% nel 2020». Questo, però, al netto di crisi sistemiche o para-sistemiche come quelle che possono promanare dal Portogallo: la Bce è davvero così sicura di poterle escluderle a priori?
Per quanto riguarda i prezzi, l’Eurotower conferma la stima di inflazione per il 2017 e rivede al rialzo la prospettiva per il 2018, «soprattutto per effetto delle più elevate quotazioni del petrolio e dei beni alimentari». Le proiezioni macroeconomiche, si legge nel bollettino mensile, «indicano un tasso annuo di inflazione misurato sullo Iapc (Indice armonizzato dei prezzi al consumo, ndr) dell’1,5% nel 2017, dell’1,4% nel 2018, dell’1,5% nel 2019 e dell’1,7% nel 2020». A settembre gli esperti indicavano un tasso annuo di inflazione misurato sullo Iapc dell’1,5% nel 2017, dell’1,2% nel 2018 e dell’1,5% nel 2019. Comunque sia, fateci caso, il mitologico 2% non è nel mirino nemmeno da qui a due anni pieni, questo nonostante i dati tutti ottimistici della Bce: siamo certi che, a Qe concluso il prossimo settembre e con un’inflazione attesa per l’anno all’1,4%, le forze di deflazione che arriveranno dalla Cina – a quel punto in piena guerra commerciale con gli Usa dello shock fiscale e costretta all’ennesimo impulso reflattivo – non devasteranno in sei mesi, qualcosa come tre anni di lavoro e monetizzazione del debito? E se sì, cosa si farà, si estenderà ancora una volta il Qe, magari passando a 20 miliardi al mese per un altro anno, anche solo per non far saltare in aria la Bundesbank?
No, perché ormai la stagione espansiva di Mario Draghi sta volgendo al termine e proprio in Germania si sta già guardando avanti, ovvero a una nuova guida della Bce che guidi e, di fatto, gestisca la transizione verso un’Europa a due velocità economiche ormai inevitabile, ammesso e non concesso che quella politica regga agli scossoni di Brexit e Gruppo di Visegrad. Signori, le condizioni straordinariamente favorevoli per la ripresa di cui ha parlato ieri Paolo Gentiloni stanno finendo. E in fretta, non fosse altro che per un possibile shock petrolifero da Libia e Iran. E l’Italia a che punto è, è davvero in carreggiata? No, perché non lo è nemmeno l’Europa, quella che cresce sui surplus. Nonostante il bollettino della Bce di ieri sembrasse dirci altro. Ma i dati macro vanno saputi leggere. E, soprattutto, contestualizzare.