Pier Carlo Padoan ha senz’altro ragione: la nuova legislatura erediterà una situazione economica “di gran lunga” migliore di quella ereditata da quella passata, devastata dalla recessione. Difficile, altrettanto, non esser d’accordo con il ministro dell’Economia quando ammonisce che “il sentiero è stretto: la crescita in Italia sta accelerando ma resta più lenta rispetto ad altri Paesi, la strada per raggiungere una crescita maggiore è ancora lunga”. A ricordarcelo sono stati i recenti dati sull’inflazione e sull’occupazione. Nella media d’anno i prezzi dovrebbero salire dell’1,2%, ma a novembre c’è stata una frenata (+0,9% contro +1% a ottobre). Per quanto riguarda il mercato del lavoro, i dati Istat di ottobre certificano che il tasso di disoccupazione è rimasto stabile a 11,1%. Nella media di quest’anno il tasso dovrebbe attestarsi a 11,3% per poi scendere, secondo le previsioni, poco sotto l’11% nel 2018. Niente di che esaltarsi, visto che il dato europeo è di tre punti inferiore.
Certo, l’Italia ha ripreso a muoversi. Ma gli altri corrono, come confermano i dati Pmi. La lettura finale dell’indicatore di crescita basato sugli acquisti delle imprese della zona euro si attesta a 60,1 a novembre, il livello più elevato da oltre 17 anni. “Il sondaggio di novembre mostra chiaramente una lettura migliorata del Pmi per tutti i Paesi, la migliore performance della manifattura nella zona euro sin dai massimi del boom del .com”, dice Chris Williamson, chief business economist a IHS Markit. In questa cornice l’Italia continua a fare parte della coda del plotone dell’Eurozona. I dati Istat segnalano un aumento del Pil nel terzo trimestre dello 0,4%, rispetto allo 0,5% calcolato in precedenza. Rispetto al terzo trimestre 2016 la crescita è dell’1,7%, in frenata rispetto alla stima flash (+1,8%). Ma dietro questo numero “grezzo”, interpretato con preoccupazione dalla Borsa (in mattinata la peggiore d’Europa), non mancano le note positive su cui riflettere alla vigilia di una stagione elettorale che si presenta sotto gli auspici peggiori.
Il 2017, infatti, ha registrato, anche a prescindere dal fatto che si tratta della performance migliore dal 2011, progressi confortanti che fanno ben sperare purché non si adottino correzioni di rotta suicide. La nota più positiva riguarda il balzo degli investimenti: tra luglio e settembre, in base ai dati Istat, gli investimenti in macchinari e attrezzature sono saliti del 6% sul trimestre precedente e del 5,4% rispetto allo stesso periodo del 2016. Senza dimenticare che l’ultimo dato sul Pil sconta un forte calo delle scorte nel corso del trimestre. Quel che conta, poi, è che la crescita del Pil nominale permetterà finalmente di avviare un percorso virtuoso di riduzione del debito pubblico.
Il Pil nominale del terzo trimestre 2017, infatti, aumenta, rispetto allo stesso periodo del 2016, del 2,4%, frutto di una crescita reale dell’1,7% e di un deflatore del Pil dello 0,8%. Un dato che ci fa guardare al futuro con maggior fiducia, materia prima che scarseggia nel Bel Paese, come ha confermato il rapporto del Censis, al solito una fotografia illuminante e implacabile: la ripresa c’è, si legge, ma in essa “persistono trascinamenti inerziali da maneggiare con cura. Non si è distribuito il dividendo sociale della ripresa economica e il blocco della mobilità sociale crea rancore. L’87,3% degli italiani appartenenti al ceto popolare pensa che sia difficile salire nella scala sociale, come l’83,5% del ceto medio e anche il 71,4% del ceto benestante. Pensano che al contrario sia facile scivolare in basso nella scala sociale il 71,5% del ceto popolare e il 65,4% del ceto medio”.
Al “rancore sociale” generato dal disagio collettivo buona parte della politica tenta di dare una risposta con la presunta “giustizia sociale”, ovvero l’erogazione a pioggia di contributi e bonus. È la risposta sbagliata, come dimostra la storia di questi anni. Buona parte dei nostri guai dipende proprio dalla pessima abitudine di disperdere in mille rivoli le risorse invece di perseguire con tenacia obiettivi durevoli e in grado di favorire il progresso di tutti, giovani e anziani, come la riduzione del debito e l’aumento della produttività, unica strada sana per mirare all’aumento dei salari, un’esigenza generale che non si soddisfa con mance e mancette.