L’anno 2017 finisce insieme alla legislatura numero 17, lasciando al prossimo futuro una pesante eredità: la disoccupazione. Nessuna delle forze politiche che si preparano alle elezioni del 4 marzo ha una proposta forte per ridurla in modo significativo, per puntare, perché no, alla piena occupazione in un arco ragionevole di anni, come hanno fatto la Germania e il Giappone in condizioni diverse e con politiche economiche persino opposte. In Italia prevale, invece, una rincorsa al reddito senza lavoro, illusione propagandistica che rischia di assumere connotati persino ideologici. Ma prima di tirare qualsiasi conclusione, diamo uno sguardo ai dati.
Il rapporto integrato sul mercato del lavoro che mette insieme armonizzandole tutte le fonti ufficiali mostra che “la ripresa economica è caratterizzata da un’elevata intensità occupazionale”. Sono stati recuperati, in buona parte, i livelli precedenti la crisi: nel primo semestre del 2017 il numero di occupati si avvicina ai livelli del 2008. Tra il primo semestre del 2013 e il primo del 2017, a fronte di un aumento del prodotto lordo pari al 3,4%, le ore lavorate sono cresciute del 3,6% e gli occupati del 2,9%. Tutte le parole spese nel denunciare una ripresa senza lavoro sono state smentite.
La crescita dell’occupazione, prima di capire gli effetti del Jobs Act e dell’abolizione dell’articolo 18 che si potranno calcolare solo nei prossimi anni, è significativa per il lavoro dipendente e nel settore privato dell’economia, mentre continua il declino del lavoro indipendente e della Pubblica amministrazione che, fra il 2008 e 2016, ha perso circa 220 mila unità di lavoro a causa del lungo blocco del turnover. L’Italia, insomma, è un Paese dove aumenta il lavoro privato e quello dipendente, anche questo contraddice molti luoghi comuni.
Dal 2013 al 2016 sono stati attivati 40 milioni 68 mila rapporti di lavoro alle dipendenze, mentre ne sono cessati 39 milioni 152 mila, con un saldo di 916 mila posizioni in più nei quattro anni. La quota di individui con un rapporto di lavoro a dodici mesi di distanza passa dal 74,1% nel periodo 2012-2013 al 78,9% del 2015-2016. Dunque, non è vero che sono stati distrutti più posti di lavoro di una certa durata di quanti ne siano stati creati. Tuttavia, dal 2014 è cresciuta l’occupazione a termine, con un rallentamento nei due anni successivi, e una nuova intensificazione nel 2017 quando ha toccato il massimo storico nel secondo trimestre 2017, con 2,7 milioni di unità. Tra il 2015 e il 2016, grazie in particolare ai provvedimenti di decontribuzione, è in aumento significativamente anche l’occupazione a tempo indeterminato che, con 14 milioni 966 mila unità non è lontana dal massimo della serie storica del terzo trimestre 2008 (15 milioni 7 mila unità),
Le misure dei governi Renzi e Gentiloni hanno avuto effetto, ma non bastano. Il tasso di occupazione destagionalizzato ha raggiunto il 57,8% nel secondo trimestre del 2017 recuperando oltre due punti percentuali rispetto al valore minimo del terzo trimestre 2013; tuttavia è ancora distante di un punto da quello massimo registrato nel secondo trimestre del 2008 (58,8%) e resta il secondo tasso più basso tra i paesi europei. E non è solo questione di divari territoriali. Se isoliamo il nord-est dal resto dell’Italia, il tasso di occupazione è comunque inferiore a quello dei principali paesi europei.
Troppo elevata resta la disoccupazione. Dopo il calo dal 2014 e la sostanziale stabilità dal terzo trimestre 2015, è nuovamente diminuita nel secondo trimestre 2017 arrivando all’11,2%, che comunque rimane il quarto valore più alto tra i paesi dell’Ue. L’Italia è il Paese che dopo la Spagna e insieme alla Francia presenta un elevato tasso di disoccupazione nonostante un biennio di ripresa ininterrotta. Sia l’occupazione, sia la disoccupazione sono molto diverse per classi di età, penalizzando i giovani fino a 34 anni. E anche qui stiamo peggio della media europea.
Il lavoro e il debito pubblico sono le priorità che la nuova legislatura dovrà affrontare, ma i principali partiti non hanno nessuna proposta né per l’uno, né per l’altro. Forza Italia ha lanciato la flat tax, scommettendo che una riduzione generalizzata delle imposte faccia da volano. L’impatto sul debito sarebbe elevato nel breve termine, mentre l’occupazione migliorerà solo quando il taglio delle tasse avrà accelerato il ritmo di crescita; ma questo lo si vedrà non prima di un anno o due. Inoltre, il reddito di dignità, mille euro al mese per tutti, proposto da Silvio Berlusconi, appare una promessa vuota se non si dice come coprirlo.
Lo stesso vale per il Movimento 5 Stelle che ha come bandiera della sua politica economico-sociale il reddito di cittadinanza. L’ultima più blanda versione lo collega a una ricerca attiva dell’occupazione, in ogni caso è un intervento a valle che di per sé non modifica le contraddizioni strutturali del mercato del lavoro.
Il Partito democratico, che con il Jobs Act aveva puntato molto sulla riforma del mercato del lavoro per aumentare l’occupazione, sembra aver esaurito le cartucce: difende il già fatto, ha inseguito i pentastellati con il reddito di inclusione, ma non ha una idea forte di qui in avanti. Cittadinanza, inclusione, dignità, in ogni caso prevale l’assistenza: chi produrrà quel reddito da distribuire sembra non preoccupare le macchine acchiappa-voti.
Perché invece non lanciare una proposta controcorrente, puntando alla piena occupazione di qui alla fine della prossima legislatura, al netto di crisi congiunturali che, secondo la Bce e il Fondo monetario non sono in vista almeno per un paio d’anni? La Germania è al 5%, il Giappone al 2,7%. Rigore finanziario e politica attiva del lavoro (non solo da parte del governo, ma delle imprese e dei sindacati) è la ricetta tedesca, più debito (sia pubblico sua privato) e più moneta, una sorta di iper-keynesismo, quella nipponica. Dunque, non esiste un’unica formula per tutte le occasioni, però sia Berlino, sia Tokio non hanno rinunciato all’obiettivo di impiegare al meglio e nel modo più efficiente la risorsa lavoro, che è ancor oggi l’alfa e l’omega della ricchezza delle nazioni.
Nel dibattito pubblico italiano, al contrario, è come se il lavoro arrivasse dopo tutto il resto, nonostante il gran chiacchiericcio che se ne fa in tv e sui giornali. Qualcuno avrà il coraggio politico di prendere un impegno serio per raggiungere il punto più vicino possibile alla piena occupazione e l’onestà intellettuale di dire quali sono le condizioni per arrivarci? Giriamo la domanda ai protagonisti della tenzone elettorale e incrociamo le dita.