C’è qualcosa di sinistro (mi raccomando con la o) che sta avanzando nel confuso dibattito politico pre-elettorale: è l’affollarsi da parte di tutte le forze politiche di proposte, progetti, idee, promesse e programmi che hanno al fondo la prospettiva di rafforzare sempre di più la presenza dello Stato nell’economia e nella società. Si va dal reddito di cittadinanza per tutti, pagato ovviamente da maggiore spesa pubblica, all’abolizione della riforma Fornero, che vorrebbe dire anche questa ancora maggiore spesa pubblica, così come lo stesso effetto avrebbe l’introduzione di una doppia moneta, l’abolizione dei ticket sulla sanità, la riduzione senza contropartita delle tasse sulle persone e sulle imprese.
Va bene che le promesse elettorali hanno le gambe corte, ma la corsa alla spesa sembra accomunare tutti gli schieramenti politici anche per facilitare il formarsi delle coalizioni rese praticamente indispensabili dalla nuova legge elettorale. C’è un corsa allo statalismo quasi come rifugio (peraltro illusorio) dopo le tempeste della crisi economica, c’è una pressione per soffocare le iniziative private nella sanità come nella scuola, c’è la tentazione di barattare un po’ della propria libertà per ottenere garanzie, se non di occupazione, almeno di reddito.
In questa prospettiva il mercato è visto come la radice di tutti i mali, la proprietà privata come un diritto da limitare e controllare, la ricchezza come un furto anche se è dovuta alla capacità, allo spirito imprenditoriale, al rischio. E una deriva che nasconde molti pericoli come quello di entrare in rotta di collisione con l’Europa e le sue regole, regole che peraltro abbiamo tranquillamente accettato nei decenni scorsi e che hanno contribuito in maniera decisiva a mantenere sostenibile il nostro debito pubblico e competitiva la nostra economia. E su questa strada si trova la ripresa di quel nazionalismo chiuso e ambizioso che porterebbe l’Italia a rinunciare agli apporti positivi degli scambi internazionali. Collegata al nazionalismo c’è la chiusura verso quell’immigrazione che è l’unica possibilità, pur frammentaria e parziale, di limitare i danni economici del calo demografico e dell’invecchiamento della popolazione.
È in questo scenario di nebbia ideologica che appare un’opportuna possibilità di riflessione il libro di Robert A. Sirico, “A difesa del mercato. Le ragioni morali della libertà economica” (Ed. Cantagalli, pagg. 260, € 17), un libro in cui l’autore, sacerdote e fondatore dell’Acton Institute for the study of religion and liberty, mette in luce con estrema chiarezza come il metodo della libertà e del libero mercato sia la strada maestra per far crescere la società. Certo, non un mercato paragonabile alla giungla dove vince il più forte, ma una dimensione economica dove “prendere sul serio il ruolo positivo dell’impresa, del mercato e della proprietà privata, elementi che hanno storicamente comportato un miglioramento materiale dell’intera umanità”.
Sirico affronta i temi di fondo del pensiero politico e sociale contemporaneo con encomiabile chiarezza e con un chiaro atto di accusa contro il pensiero dominante. “La confusione ci circonda completamente. La libertà viene confusa con la licenza, il clientelismo con il capitalismo, la semplice istruzione con l’educazione, la previdenza sociale con la genuina solidarietà tra le generazioni e la vera responsabilità sociale con il prendere soldi da una categoria per darli a un’altra, senza badare alla devastazione culturale che questa forma orwelliana di welfare provoca su chi quel denaro lo riceve in questo mondo. Siamo arrivati a credere che il burocrate statale sia un buon samaritano”. E così si confonde l’economia di mercato con il consumismo, si pensa che la solidarietà sia compito solo dello Stato, si penalizza il risparmio nel grande calderone delle speculazioni finanziarie.
C’è allora bisogno di riscoprire una vera centralità della persona, non solo lavoratore e consumatore, ma una persona che abbia i principi morali come guida e la fede come illuminazione. “Quando la libertà viene separata dalla fede – scrive Sirico – ne soffrono sia la libertà, sia la fede”.