Qualcuno sta scherzando con il fuoco. E, purtroppo, non rischia di bruciarsi da solo. C’è infatti molto più che il conflitto saudita-yemenita dietro la morte dell’ex presidente, Ali Abdullah Saleh, ucciso da un cecchino lunedì, mentre i ribelli Houthi entravano trionfanti nella capitale Sana’a. «Morirò per il mio popolo e il mio Paese», disse qualche tempo fa. E così è stato. E se la mano che ha colpito è dei guerriglieri yemeniti filo-iraniani resta da capire quanto del suo destino sia stato pilotato dall’Arabia Saudita. E dai suoi nuovi alleati, Usa e Israele. Fino alla scorsa settimana e da 3 anni a questa parte, infatti, Saleh aveva combattuto insieme agli Houthi. Poi, giovedì scorso, aveva annunciato di aver riaperto il dialogo con l’Arabia Saudita e da 48 ore aveva dato ordine alle sue milizie di combattere proprio contro gli Houthi che controllavano buona parte della capitale. Quegli stessi ribelli che lunedì mattina hanno attaccato l’ex presidente e poi diffuso un video in cui veniva mostrato quello che loro identificano come il suo cadavere, brandito in televisione in quella che è parsa una rievocazione macabra della bestiale ostentazione del corpo di Muhammar Gheddafi. E, temo, questa morte porterà sconquassi pari a quella del vecchio leader libico. 



Immediatamente, la coalizione militare araba guidata dall’Arabia Saudita ha chiesto ai civili nella capitale yemenita di allontanarsi dalle zone controllate dai ribelli Houthi, allerta che potrebbe significare un’ulteriore intensificazione dei raid aerei sulla capitale. Nel frattempo, il presidente Abd Rabbo Mansour Hadi ha ordinato alle sue truppe di riconquistare Sana’a con il sostegno della coalizione guidata dai sauditi. Insomma, il grande proxy fra Ryad e Teheran sembra sul punto di deflagrare. Soltanto sabato scorso, in un discorso televisivo, Saleh aveva chiesto alla coalizione saudita di mettere fine ai bombardamenti contro le forze ribelli e al blocco dei porti e aeroporti yemeniti, promettendo in cambio di «voltare pagina». Ma, nel frattempo, i ribelli hanno attaccato le postazioni dell’ex presidente, che aveva iniziato quindi a coordinare le sue operazioni con i sauditi chiedendo il loro appoggio aereo. 



Domenica, la coalizione saudita aveva accolto con favore un’apertura di Saleh, sostenendo che una nuova alleanza permetterà di «liberare lo Yemen dalle milizie fedeli all’Iran», chiaro riferimento, ai legami tra gli Houthi e il governo di Teheran. Saleh davvero voleva la pace o è stato obbligato a quel voltafaccia che pare essergli costato la vita? Perché la sua mediazione dell’ultim’ora con l’Arabia Saudita, dopo un anno di contatti che non avevano però mai portato nemmeno all’idea di una rottura con gli Houthi, parlano la lingua di un progetto di destabilizzazione molto simile a quello che nelle scorse settimane ha visto misteriosamente sparire dal Libano il premier, Hariri, salvo riapparire proprio in Arabia Saudita, da dove aveva annunciato le sue dimissioni, attaccando frontalmente Hezbollah e l’ingerenza iraniana nella sua nazione. Poi, la strana mediazione della Francia, il viaggio verso Parigi dove è rimasto due giorni ospite di Emmanuel Macron e, infine, il ritorno a Beirut, con tanto di congelamento delle dimissioni. Saleh pensava di operare allo stesso modo e, invece, qualcuno ha pensato di sacrificarlo sull’altare di una guerra che fa comodo a troppi? 



E poi, com’è stata possibile l’azione fulminea dei ribelli Houthi, bloccati da settimane in una battaglia di retroguardia e, di colpo, in grado non solo di battere tutte le resistenze governative, conquistando Sana’a, ma anche di uccidere Saleh? Qualcuno ha spalancato loro la porta, in una riedizione mediorientale del massacro di Srebrenica, tanto per creare il casus belli tanto atteso? Una cosa è certa: lo Yemen sul punto di non ritorno è una splendida notizia per chi sta preparandosi a capitalizzare un’altra svolta senza precedenti, ovvero la proclamazione di Gerusalemme come capitale unica di Israele da parte di Donald Trump, una scelta che dovrebbe concretizzarsi oggi e che il presidente turco, Recep Erdogan, ha già definito «una linea rossa per tutto il mondo musulmano che potrebbe portare a conseguenze catastrofiche». Insomma, si sta allegramente giocando con i fiammiferi vicino a un pozzo di petrolio. 

È in questo contesto che occorrerebbe porsi una domanda chiara, al netto dell’incontro di ieri fra il segretario di Stato Usa Rex Tillerson e la ministra degli Esteri Ue, Federica Mogherini: a che gioco sta giocando Emmanuel Macron? E per conto di chi, visto che nessuna entità europea mi pare gli abbia conferito mandato per trattare sulle tematiche del Medio Oriente? Viene da chiederselo, perché mentre lunedì Sana’a inviava segnali al mondo, da Teheran ne arrivava uno con destinazione Parigi: «La Francia dovrebbe sapere che il programma missilistico iraniano non è una questione che può essere negoziata». Questo l’avviso del ministero degli Esteri iraniano, dopo che il mese scorso l’inquilino dell’Eliseo e l’Unione europea erano intervenuti sulla questione chiedendo più trasparenza. «I funzionari francesi e gli altri che vogliono parlare degli affari interni dell’Iran devono prestare attenzione ai profondi sviluppi che si sono verificati nella regione e ai grandi cambiamenti tra la situazione attuale e quella passata», ha dichiarato alla Reuters il portavoce del ministero, Bahram Qassemi. Che ha aggiunto: «La Repubblica islamica sicuramente non negozierà questioni di difesa e che riguardano i missili». 

Il tutto, dopo che già alla fine di novembre il vicecapo delle Guardie rivoluzionarie iraniane, il generale di brigata Hossein Salami, aveva avvisato l’Unione europea, dicendo che, in caso di minacce, i pasdaran avrebbero aumentato la gittata dei loro missili oltre i 2mila chilometri. La tensione con l’Europa – e con Parigi in particolare – era salita il mese scorso, quando proprio il presidente francese, Emmanuel Macron, aveva ammonito l’Iran, chiedendo al governo di Teheran di essere meno aggressivo nella regione e di chiarire il suo programma missilistico. Lo stesso ministro degli Esteri francese, Jean-Yves Le Drian, durante una visita in Arabia Saudita, aveva denunciato le «tentazioni iraniane di egemonia sull’area mediorientale». 

Che Emmanuel Macron sia arrivato all’Eliseo grazie a Dipartimento di Stato e governo israeliano, godendo della protezione dei poteri forti espressi in Europa dalla Banca Rothschild è cosa nota anche ai tombini, ora però la questione si fa più seria: perché se la voce dell’Europa è quella dell’Eliseo, sarebbe il caso di convocare una riunione urgente dei 27 Paesi più la Gran Bretagna per capire se tutti sono d’accordo con quella linea. E, soprattutto, chi l’abbia imposta come egemone, senza che alcuna istituzione Ue si esprimesse al riguardo. Qualcuno, fra Parigi, Washington e Tel Aviv (o Gerusalemme, a piacimento) sta cercando di innescare esche a più non posso, vedendo chi sarà il primo a cascare nella trappola e fare la fine di Saleh? Perché è chiaro l’intento, se al culmine del cinismo, ieri il governo israeliano ha detto di temere rivolte violente dei palestinesi, se Trump darà seguito al suo annuncio. 

E perché, proprio mentre Federica Mogherini, a nome dell’Ue, parlava con Rex Tillerson, sempre Emmanuel Macron ha sentito il dovere di esprimersi sulla questione di Gerusalemme, addirittura con un comunicato ufficiale dell’Eliseo, nel quale si è detto «preoccupato» per la possibilità che gli Stati Uniti riconoscano Gerusalemme come capitale di Israele e ha suggerito al presidente americano che «la questione dello status di Gerusalemme deve avere una soluzione nell’ambito dei negoziati di pace tra israeliani e palestinesi»? Chi ha conferito a Macron l’incarico di mediare, intervenire, esternare e fungere da mediatore attivo, come nell’affaire Hariri, tutto da chiarire? E attenzione, il fatto che in ambito Ue nessuno abbia sentito il bisogno di chiedere conto di quello strano soggiorno parigino dell’ex premier libanese fa pensare su chi siano i referenti a cui Macron fa riferimento nelle sue mediazioni. Ma sono tante le cose che non tornano, basti pensare come i sistemi anti-missile Patriot forniti dagli Usa all’Arabia Saudita, sabato si siano fatti “bucare” in pieno da razzi Burqan-2, una variante degli Scud, di fabbricazione Houthi: d’altronde, se occorre facilitare un’offensiva, meglio che le batterie anti-missile non siano troppo reattive. Basta poco, in effetti. 

Guardate la mappa qua sotto, la questione in atto è solo questa: evitare – da parte saudita-israelo-americana – che nasca e si consolidi la rotta sciita Teheran-Beirut e che l’espansionismo militare iraniano in Siria arrivi addirittura a creare una dorsale mediorientale, attraverso l’Iraq. Direte voi, perché operare in Yemen allora, se si vuole destabilizzare? Perché occorre sempre deviare dal vero obiettivo, soprattutto se si vuole operare sporco. Magari in Siria, dove gli Usa hanno oltre 2mila uomini e non i 540 dichiarati. O, magari, continuando le schermaglie sulle Alture del Golan, spingendo l’esercito siriano a compiere qualche errore o i russi a creare un casus belli, ora che al loro fianco stanno per unirsi anche le truppe d’élite cinesi. 

Ripeto, stiamo davvero lanciando fiammiferi accesi in una pompa di benzina. Oltretutto, dentro un posacenere piccolissimo. Per questo, se non siamo davvero una colonia, l’Ue chieda conto a Macron della sua diplomazia parallela e non concordata. Se serve, svelando anche per conto di quali nazioni e poteri lavora dall’Eliseo. Non certo l’Europa, questo è chiaro. Vogliamo un 2011 e una Libia 2.0 al cubo? Siamo su un’ottima strada.