Da qualche giorno abbiamo scoperto che gli italiani sono rancorosi e arrabbiati, mai come prima: strano, chi lo avrebbe detto con tutta la ripresa economica di cui possono beneficiare? A sentire il governo, infatti, ogni decimale di Pil che l’Ocse o chi per essa ci elargisce nei processi di revisione dovrebbe portare con sé una celebrazione: “Abbiamo trovato un Paese sull’orlo del default”, è la manfrina che si sentiamo ripetere a ogni piè sospinto. Meno male che c’erano loro, altrimenti chissà dove saremmo finiti. Ce lo dice l’Istat, dove siamo finiti. Perché se in Italia le diseguaglianze crescono, come del resto accade in molti Paesi occidentali, nel Rapporto sulle condizioni di vita dei nuclei familiari presentato ieri quella che ormai viene rappresenta come una bomba sociale è ben rappresentata da numeri e cifre. Alla faccia dei tweets. 



Nel 2016, c’è stata «una significativa e diffusa crescita del reddito disponibile e del potere d’acquisto delle famiglie (se riferito al 2015), ma anche un aumento della disuguaglianza economica e del rischio di povertà o esclusione sociale», scrive l’istituto nazionale di statistica, scienza che diventa giorno dopo giorno sempre più nemica di Padoan e soci. Gli italiani che rischiano di finire ai margini sono uno su tre: un numero altissimo, il quale fa lievitare la popolazione a rischio di povertà o esclusione sociale alla cifra di 18.136.663 persone. Di fatto, una nazione a sé. E le differenze si vedono sui territori, inutile negarlo. Chi risiede al Sud e nelle Isole ricade più spesso nel primo quinto più a rischio (33,2%), rispetto a chi vive al Centro (15,8%) e nelle aree geografiche del Nord-ovest e Nord-est (13,2% e 10,1%). 



Ma non basta, perché al netto delle gare da centometrista in Conferenza dei capogruppo per piazzare biotestamento o ius soli nella calendarizzazione a scopo elettorale delle ultime sedute del Senato, ecco cosa ci dice l’Istat sul Paese reale, quello che manda l’astensione alle stelle e punisce a ogni tornata elettorale il Pd di governo. È infatti chi vive in nuclei numerosi, con tre o più figli, a riempire il quinto più povero della popolazione (36,5%). Un aspetto, spiega l’Istat, che «si lega anche alla maggiore presenza di minori nel segmento inferiore della distribuzione dei redditi, soprattutto se vivono in famiglie numerose». Quando in famiglia vi è almeno un minore si ha una concentrazione del 25% nel primo quinto più povero, percentuale che sale al 39,5% nel caso i figli siano tre o anche di più. E non è un caso se le nascite ormai segnino il passo e non più solo al Nord, ma anche al Sud. Ecco la fotografia del Paese che lesina i centesimi sul bonus bebé, già di per sé acqua fresca o poco più rispetto alle esigenze reali delle famiglie ma che è pronto a salta mortali e contabilità creativa di ogni genere per non scontentare le masse più elettoralmente sensibili. 



Un esempio? Pronti, fresco fresco di ieri, quasi in contemporanea con i nuovi, allarmanti dati Istat. «Come Dipartimento Lavoro del Partito democratico presenteremo emendamenti per l’abbassamento della durata massima dei contratti a tempo determinato da 36 a 24 mesi e un pacchetto di misure per le politiche attive del lavoro». Parole e musica della responsabile Lavoro del Pd, Chiara Gribaudo, la quale sottolinea che «in linea con il Jobs Act, il contratto a tutele crescenti deve essere la forma privilegiata dalle imprese, e anche per questo servono limiti più stringenti ai contratti a termine». Che strano tempismo, non trovate? In pieno bailamme a sinistra del partito di maggioranza relativa, oltretutto con il nuovo soggetto capeggiato da Pietro Grasso in perfetta simbiosi con la linea oltranzista della Cgil e l’affaire Ikea che ha riportato sui giornali e in tv la questione dei contratti di lavoro definiti per così dire “flessibili”, ecco che si interviene nella carne vive del conflitto: com’è che fino alla scorsa settimana il Jobs Act era praticamente il frutto del lavoro di Re Mida e si continuava a battere sul tasto che un contratto flessibile è meglio della disoccupazione? Com’è che dopo la rincorsa dei sindacati sull’innalzamento automatico dell’età pensionabile per i lavori usuranti, ora si mette mano con tempismo emergenziale ai contratti a tempo determinato, ovvero all’80% di ciò che proprio il Jobs Act ha generato, ovvero precarietà in un Paese con i poveri potenziali al massimo di sempre? 

Sicuri che il Paese, in queste condizioni, capisca perché si accelera con tanta determinazione sul biotestamento? O perché si continuino a vendere panzane su uno dei temi più sensibili di tutti, quello dell’immigrazione? Credete davvero che la vulgata di Tito Boeri riguardo la sostenibilità del sistema pensionistico grazie agli immigrati faccia presa? La gente sa fare i conti e basta vedere la spesa sanitaria connessa per capire che quella ratio è meramente ideologica: serviva a sostenere la narrativa per lo ius soli? Beh, proprio l’altro giorno in Conferenza dei capigruppo abbiamo visto quanto quel tema fosse sentito: spedito all’ultimo posto della calendarizzazione, insieme a provvedimenti che definire residuali significa utilizzare un eufemismo. 

Si potrà scherzare ancora molto, stante i numeri dell’Istat oppure un sussulto di decenza sarà obbligatorio, se non si vuole essere spazzati via da quel rancore che non solo cova ma ormai pare elemento fondante della nostra società? In tal senso, evito di tediarvi con il solito “Cosa mi avevo detto?” relativamente alla piega presa della Commissione d’inchiesta sul sistema bancario, la quale doveva fare luce sulle storture e garantire verità ai truffati e, invece, si è tramutata nell’ennesimo teatrino dei veti incrociati con finalità meramente elettorale: parafrasando Shakespeare, “Ghizzoni o non Ghizzoni, questo è il dilemma”. Tutto qui, ecco il topolino partorito dalla montagna delle buone intenzioni. Come vi avevo detto fin dall’inizio, d’altronde. 

Ma attenzione, perché è il modello di sviluppo malinteso come pro-ciclico dalle Banche centrali post-2008 a essere marcio. Guardate questo grafico, il quale ci mostra l’impennata di utilizzo di carte di credito e debito negli Stati Uniti, un livello che ricorda appunto l’ubriacatura che si registrò nel 2007 e che potrebbe essere il segnale di allarme per una nuova, imminente recessione, alla faccia del Pil gonfiato da spese mediche obbligatorie ed extra-acquisti legati all’emergenza uragani. E un segnale ancora più grave arriva da quella che possiamo definire la controparte statunitense delle Caritas, ovvero la Food Bank, la quale ha registrato un’impennata di richieste non in sperdute aree rurale ma a New York City: le mense sono prese d’assalto, conferma Laine Rolong, senior manager. 

Di più, ecco le parole di Kevin Gallegos, vice-presidente della Freedom Debt Relief, un’agenzia che si occupa di mediazione sui debito per consumatori: «Direi che ormai siamo al livello registrato dieci anni fa, la gente sta abusando delle carte di credito per campare. Ogni giorno abbiamo a che fare con clienti che ci dicono di essere sull’orlo del suicidio, matrimoni che saltano a centinaia per la crisi, padri che si lamentano di non riuscire a portare sufficiente cibo in tavola». Parliamo degli Usa di Donald Trump, nazione dove gli indici di Borsa sfondano un record al giorno: e dove ormai ci si indebita a tassi astronomici non per comprare casa e poter godere di un asset che dura nel tempo ma per fare la spesa o pagare le bollette o il dentista ai figli. Un Paese, fonte Gallup, dove ormai il 40% dei cittadini non è in grado di affrontare una spesa extra-budget mensile di 300 dollari: si campa sullo stipendio, per chi ha la fortuna di avere un lavoro decente, stante la percentuale folle di lavori part-time e al minimo sindacale di paga che gonfia le statistiche Usa, al pari delle nostre. Andate a vedere numeri e composizione della forza lavoro e il bluff sarà svelato in un attimo. Lo stipendio entra ed esce, la classe media non risparmia più. Questo nella prima economia del mondo. 

Attenzione, qui non stiamo giocando con la retorica da titolo in prima pagina del famoso 1% del mondo che si gode quasi tutta la ricchezza: qui stiamo parlando di un sistema economico-sociale che sta esplodendo, silenzioso e letale. Occorre un cambio di paradigma. Costi quel che costi, fosse anche un altro 2008: avanti così, le guerre tra poveri non resteranno figure retoriche. Diverranno realtà, fase embrionale di vere e proprie guerre civili.