Ieri si è conclusa la prima fase delle negoziazioni tra Unione europea e Gran Bretagna successive alla vittoria del “leave” nel referendum di più di un anno fa. Finita questa fase si potrà procedere alle trattative sulle relazioni commerciali. La notizia comunicata prima dell’apertura dei mercati ha dato via anche a un mini rally della sterlina inglese, poi rientrato nel corso della giornata; qualsiasi novità che riduce l’incertezza è stata finora considerata positivamente dai “mercati”. A 18 mesi dal referendum sulla Brexit si può fare un mini riassunto di quanto sia successo finora.



Il referendum ha comportato un rallentamento della crescita, il Pil dovrebbe salire quest’anno dell’1,5%, e un aumento dell’inflazione, ma non si è avuto nessun collasso; il tasso di disoccupazione ha continuato a scendere e negli ultimi dodici mesi è calato dall’4,8% al 4,3%. In sostanza possiamo concludere che le tempeste che alcuni prevedevano finora non si sono realizzate. La borsa di Londra, anche al netto della svalutazione della sterlina, non ha invece accusato il colpo.



La decisione presa dagli elettori inglesi non si può però giudicare né con quanto successo negli ultimi diciotto mesi, né con quello che succederà nei prossimi 18. Si potranno tirare conclusioni su questa decisione solo dopo diversi anni dalla fine delle trattative. I costi di breve termine sono una certezza che nessuno ha mai creduto di poter evitare. Sembra una banalità, ma molti critici si sono appellati ai dati degli ultimi mesi per “provare” l’errore inglese. Eppure anche la permanenza dell’Italia nell’Unione europea ha, palesi, costi di breve termine che vengono ritenuti congrui in vista dei benefici di lungo termine che si avranno quando l’unione sarà completa. Un atteggiamo onesto richiede lo stesso approccio anche nei confronti della scelta inglese.

Il cuore della Brexit è, in sostanza, un atto di sfiducia nei confronti dell’Unione europea. La decisione inglese sarebbe altrimenti incomprensibile perché i vantaggi di breve termine, o meglio i costi attuali che si sarebbero evitati, e quelli di lungo termine dell’appartenenza all’Unione europea sono chiari a partire da quelli di far parte di un mercato unico. La Gran Bretagna in sostanza ha detto una di queste due cose: l’Unione europea è gestita male e andrà incontro al declino e questa traiettoria non è modificabile o gli interessi degli inglesi non sono tutelati all’interno dell’Unione. Gli inglesi perdono se l’Europa ritrova una via per la crescita per tutti i suoi cittadini e non, com’è ora, per un ristretto gruppo di stati che trasferiscono ricchezza e sovranità da una periferia che sembra sempre di più una colonia sia politicamente che economicamente.

È difficile dire che gli inglesi hanno torto se l’Unione europea è quella della Grecia al 25% di disoccupazione e della Germania al 3,5% senza alcuna intenzione di modificare il suo surplus commerciale e finanziario ormai arrivato ai massimi. Come minimo si può dire che gli interessi dei greci non contano o non riescono a contare all’interno dell’attuale costruzione europea al punto che questa sofferenza devastante non si traduce in alcun cambiamento. Diciamo Grecia, ma in realtà il discorso vale per tutta la periferia Italia inclusa.

Se la Gran Bretagna, nonostante le pressioni della city e il malumore delle banche d’affari a partire da Goldman Sachs, riuscirà a completare il processo di uscita si avrà un progetto concorrente a quello dell’Unione europea. Il metro di giudizio non può essere la performance economica della Germania, ma quello della periferia a cui, in un certo senso, apparteneva anche la Gran Bretagna in un’unione dove ancora oggi comanda la Germania con un minimo di contraltare della Francia. Accettare questa sfida per l’Unione europea significa, se ne è capace, dimostrare che è esiste una via per lo sviluppo per tutti all’interno dell’attuale costruzione.