Non si può dire che il fenomeno Brexit sia stato trascurato – dai diretti interessati ma non solo – nei suoi possibili impatti economici ancor prima che si verificasse. Al momento del voto il Tesoro inglese aveva redatto un lungo studio che rappresentava la posizione ufficiale del governo; altri studi rigorosi erano stati condotti dalla London School of Economics, da Oxford Economics e dal National Institute for Economic and Social Research. Per non parlare dei panorami previsivi dell’Ocse redatti lungo tutto l’arco del 2016. Tutti questi studi avevano concluso che gli effetti di lungo termine della Brexit avrebbero comportato una riduzione del Pil del Regno Unito rispetto all’alternativa del Bremain, con l’ampiezza della perdita dipendente dalle scelte successive in termini di commercio e investimenti. 



Sono tre gli scenari previsti inizialmente dal Tesoro per il post-Brexit , che riflettono abbastanza bene anche quelli considerati dagli altri centri studi menzionati in tema di nuove relazioni Gran Bretagna-(resto dell’)Ue: a) una soluzione simile a quella oggi vigente per la Norvegia, con le stesse possibilità di accesso al mercato comune; b) un “modello Canada” simile a quello in via di adozione tra il Canada e l’Europa; c) un “modello Wto (World trade organization)” nel quale la Gran Bretagna avrebbe solo lo status di “nazione più favorita” come hanno altri Paesi terzi. E alla fine di questo primo approccio il verdetto è chiaro: “Il Regno Unito sarebbe permanentemente più povero se lasciasse l’Ue e adottasse una qualsiasi delle suddette tre soluzioni”.



In uno studio successivo, lo stesso Tesoro paventa considerevoli rischi nel breve termine, dovuti allo shock negativo che la decisione avrebbe sull’economia, fino al punto da innescare una vera e propria recessione. Addirittura lo studio giunge a suggerire che c’erano già segnali della presenza di tali fattori negativi, quali l’aumento del “premio di rischio” per il debito pubblico britannico e un certo declino della fiducia da parte dell’imprenditoria. Lo shock atteso avrebbe tre cause: 1) l’effetto di transizione, dovuto al passaggio subitaneo a regimi commerciali e di investimento meno aperti; 2) un effetto incertezza che indurrebbe gli investitori a soprassedere a decisioni su nuovi progetti, con conseguente minore domanda nel sistema economico; 3) un effetto sulla stabilità finanziaria derivante dalla rivalutazione della rischiosità del Regno Unito. 

Vengono previsti due scenari per l’effetto-shock: uno leggero e uno più pesante. In quello più leggero si prevede un calo del Pil del 3.6% in due anni, come pure una più alta inflazione, dovuta alla svalutazione della sterlina; in quello più severo, il Pil si ridurrebbe del 6% e gli effetti sulla disoccupazione e sull’inflazione sarebbero anch’essi più pesanti, senza contare il possibile arretramento della disponibilità dei mercati finanziari a coprire il già ampio deficit britannico della bilancia dei pagamenti. 

Trattasi di scenari marcatamente pessimistici ( riticati come scare-mongering , ovvero “terroristici”), niente affatto coincidenti con le opposte previsioni formulate dagli Economists for Brexit, i quali ritengono che l’impatto non sarà tale da produrre recessione e che, in ogni caso, il costo da pagare dal sistema sarà rapidamente superato. Tra i suddetti Economists for Brexit si differenzia, per super-ottimismo, l’economista Minford: in base a un suo sofisticato (e fantasioso?) modello nel dopo-Brexit i cittadini britannici acquisirebbero prodotti da tutto il mondo a prezzi più convenienti e l’imprenditoria britannica sfuggirebbe ai costosi regolamenti imposti da Bruxelles, per cui alla fine il Pil crescerebbe addirittura del 4%. 

Altre valutazioni e altri ammonimenti (in attesa dell’evento) erano stati espressi dal Fondo monetario internazionale e dall’Ocse, oltre che dalla Banca d’Inghilterra: tutti concentrati sui rischi, in particolare per la stabilità finanziaria, più che sugli impatti macro- e micro-economici. In particolare, il Fmi sottolinea le difficoltà per il Regno Unito di definire le proprie relazioni commerciali con: a) i Paesi restanti dell’Unione (e qui si sottolinea che sarà un negoziato duro e lungo); b) con gli altri 60 Paesi coperti da un trattato collettivo con l’Ue; c) con i restanti 67 Paesi in via di definizione. Ma lo studio del Fmi sottolinea come la Brexit accentuerebbe (oggi possiamo dire: accentuerà) i rischi, per l’economia britannica, connessi alla bassa produttività, al mercato immobiliare e al notevole deficit di parte corrente della bilancia dei pagamenti. Ma le modalità e la dimensione dell’impatto dipenderebbero anche dal “modello” post-Brexit prescelto per la rinegoziazione.

Il “modello Norvegia” certo consentirebbe alla Gran Bretagna di mantenere gran parte degli accessi al mercato europeo, ma con complicazioni, la prima delle quali sarebbe l’obbligo di continuare a contribuire al bilancio Ue. In secondo luogo, permarrebbe l’obbligo di accettare ancora molte regole europee, con una diminuita capacità di influenzarle; in terzo luogo, vi sarebbe il mantenimento della libertà di movimento di persone e merci. Tre aspetti che, se accettati dal negoziatore britannico, contraddirebbero la scelta del “leave” adottata dal referendum.

Meglio forse il “modello Canada?” In questo caso verrebbe adottato un accordo di libero scambio quasi totale, ma rimarrebbero in vigore molte barriere non tariffarie ricadenti sull’export di servizi finanziari e commerciali oggi prodotti dalla City di Londra: e che ciò preoccupi la City, a prescindere dai due “modelli” considerati, lo si desume già dalle notizie di stampa di questi giorni, che parlano di quote significative di istituzioni finanziarie londinesi pronte a spostarsi a Francoforte, Parigi (e magari anche a Milano?).

Entrambe le soluzioni apparirebbero preferibili, secondo gli esperti, al “modello Wto”, perché consentirebbero agli esportatori inglesi di evitare i possibili alti dazi da esso previsti (in particolare il dazio del 10% previsto dall’Ue per l’import di auto).

At the end of the day, appaiono interessanti (e preoccupanti) le proiezioni elaborate a suo tempo dall’Ocse (Economic Outlook 2016) sull’impatto mondiale della Brexit e presentate nella tabella a fondo pagina. Vi si distingue un effetto-shock riguardante la Gb e un altro riguardante l’Ue. I dati mostrerebbero per il 2018 un effetto dello shock-Gb più forte dell’analogo effetto shock-Ue sui Paesi non europei (tra cui Usa, Brics, Giappone) che non sull’Europa, all’interno della quale peraltro si distinguono tre zone a impatto decrescente: la prima, a alta connessione con il Regno Unito (Irlanda, Olanda, Norvegia, Svizzera), soffrirebbe di un calo del Pil rispetto alla baseline di quasi l’1,2% (a fronte di un calo dell’1,4% del Regno Unito da solo); la seconda, a connessione moderata (Austria, Belgio, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Spagna e Svezia) con un calo dell’1,1%, e la terza (comprendente l’Italia, il Portogallo, l’ex Cecoslovacchia, gli stati baltici, la Polonia, l’Ungheria, la Slovenia) ferma all’1%.

A questo punto, riportandoci al presente, si fa spontaneo il quesito: la “benedizione” della Brexit appena impartita dal Presidente Trump (fruitrice la premier May) potrebbe marcare una modifica dei riportati effetti della stessa nei sistemi economici coinvolti? Cosa induce Trump a magnificarne prossimi effetti super-positivi? Forse una sua (segreta) iscrizione al Gruppo degli “Economists for Brexit”, con particolare simpatia per Minford?