La giornata di ieri ha portato a galla nuovi dati economici che fanno risaltare le debolezze dell’Italia. Infatti, mentre la disoccupazione nel nostro Paese resta al 12% (ma per i giovani supera il 40%), in Germania scende sotto il 6%. Il Pil dell’Eurozona, inoltre, ha fatto segnare una crescita dell’1,8%, superiore alle attese e a livelli italiani. E anche l’inflazione si avvicina al 2% mentre nel nostro Paese resta sempre a “quota zero”. Non emerge quindi un quadro confortante e per Francesco Forte, economista ed ex ministro delle Finanze, «tutto quanto dipende, come ha scritto anche il Wall Street Journal, dal fatto che in Italia non è stata fatta la riforma del mercato del lavoro che serve». 



Ma cosa c’entra la riforma del mercato del lavoro con il Pil o l’inflazione?

La rigidità del mercato del lavoro fa sì che noi abbiamo una disoccupazione al 12% e non riusciamo a produrre in modo adeguato nella sfida internazionale europea. Essendoci meno occupati e meno produzione, i prezzi crescono di meno. Siamo ancora in depressione e questo appesantisce il nostro debito pubblico e occorre capire che l’eccesso di debito e di spesa pubblica non dipende più, checché ne dicano i liberisti ideologici, dal fatto che lo Stato sociale è eccessivo.



E da cosa allora?

Dal fatto che la crescita non è adeguata. Noi continuiamo a essere ancora lontani dai livelli del 2007, ma se avessimo una crescita ai livelli di quella europea, la nostra spesa pubblica sarebbe minore. Banalmente basta pensare che si avrebbe meno spesa per la disoccupazione e più entrate contributive in grado di sostenere la spesa pensionistica. Il vero problema dell’Italia non è tagliare la spesa, ma rendere flessibile il lavoro. 

E questo non è stato fatto con il Jobs Act?

La riforma di Renzi ha irrigidito il mercato, perché quello a tempo indeterminato è il contratto di lavoro di “Serie A”. Potenziare questo contratto e non quelli di Serie B e C, vuol dire fare in modo che i costi del lavoro salgano e siano rigidi. Di fatto è stata varata una riforma del lavoro che è in contrasto con le esigenze di flessibilità. Non è un caso che l’unico settore che cresce è quello dell’auto, rappresentato da Fca, che è uscita da Confindustria e si è fatta un suo contratto. Dobbiamo occuparci degli operatori marginali del mercato, come i giovani, che restano ancora senza lavoro.



In che modo va introdotta la flessibilità nel mercato del lavoro?

Bisogna tornare alla Legge Biagi o copiare quanto hanno fatto Germania e Spagna. Del resto oggi l’unica flessibilità è quella dei voucher, ma è una vergogna immaginare che si possa creare occupazione con questo metodo, secondo il quale l’unica flessibilità possibile è quella in cui le persone non hanno un contratto.

Il fatto che l’inflazione dell’Eurozona aumenti può essere rischioso per l’Italia, considerato che potrebbe far salire le pressioni tedesche contro le politiche espansive della Bce?

L’Italia deve rendersi conto che presto aumenterà il tasso di interesse. Il quale ha un andamento indipendente da quanto accade nel nostro Paese, perché dipende dal movimento internazionale dei capitali. Se il tasso di intesse in Europa e negli Stati Uniti è più alto, in Italia non può essere più basso. Un altro problema che non è da sottovalutare è che avere una bassa crescita non farà altro che mantenere negativa la situazione delle sofferenze bancarie.

 

Professore, visto che occorrono questi cambiamenti, non converrebbe tornare al più presto al voto?

Teoricamente sì, il problema è che se andiamo alle elezioni senza aver fatto la manovra correttiva e senza che vi sia chiarezza sulla situazione di Mps e delle altre banche ci troveremmo in una situazione a dir poco drammatica: il sistema rischierebbe di saltare. 

 

Quanto si dovrebbe aspettare allora per avviare il “cambio di passo” per evitare di continuare a essere fanalino di coda in Europa?

Prima di ottobre non si può votare, quindi il cambio di passo si potrebbe fare in autunno, dopo aver sistemato queste cose e fatto una legge finanziaria decente. Bisogna portare il deficit all’1,8% del Pil per avere una riduzione automatica del debito, cosa che darebbe credibilità al Governo. Certo non è scontato che dal voto possa emergere una maggioranza che sia in grado di fare tutto questo. Speriamo in bene, altrimenti ci ritroveremo al punto di partenza.

 

(Lorenzo Torrisi)