Commuoversi citando Papa Francesco e le sue parole di riprovazione per l’evasione fiscale non è stata una mossa studiata a effetto, per Rossella Orlandi – capo dell’Agenzia delle Entrate -, ma è stato un moto dell’anima sincero, che le fa onore. Questo non toglie però merito all’unica novità di rilievo nella gestione del disastroso e disastrato fisco italiano apportata dal governo Renzi proprio insediando questa corpulenta, efficiente, sensibile professionista al timone del fisco italiano e sostituendo con lei il più odiato dei direttori, quell’Attilio Befera famigerato per i suoi scenografici quanto inutili blitz fiscali.



Ma diciamolo subito, le migliorie finiscono qui. Il fisco italiano fa pena come prima, solo che almeno adesso ha smesso di fare vanamente la faccia feroce, ha smesso di vessare chi le tasse le paga già, subisce quanto prima la protervia degli evasori, ma se non altro tormenta meno i contribuenti per bene. Detto questo, gli apprezzamenti finiscono. Anzi: iniziano le critiche per la rappresentazione che non tanto la Orlandi quanto il suo “capo” Pier Carlo Padoan, ministro dell’Economia, ha tentato di dare del consueto, imbarazzante riassunto dell’anno di lotta all’evasione.



Ufficialmente, l’Agenzia delle Entrate ha recuperato 19 miliardi di evasione fiscale nel corso del 2016, il che sarebbe il nuovo record assoluto, con un incremento di quasi il 30 per cento sul 2015, quando erano stati ripresi 14,9 miliardi. Peccato che nel computo vengono fatti rientrare ben 13,7 di versamenti diretti, nei quali sono compresi anche i 4,3 ottenuti grazie alla Volountary Disclosure, il megacondono (pardon, al massimo si può definirlo “sanatoria” fiscale per i capitali esportati illegalmente all’estero) che è stata varata dal Governo Renzi e arriverà quest’anno alla sua terza riapertura dei termini, nella speranza di fare ancora “cassa”. Significa che 13,7 miliardi sono rientrati perché gli evasori hanno deciso che pagare era meglio che occultare: segno che chissà quant’altri soldi hanno occultato e si sono tenuti al sicuro sotto qualche mattonella: tanto, per quel che danno le banche… tanto vale nasconderseli in casa, i soldi.



Solo 4,8 miliardi arrivano dalla riscossione “coattiva”, quella fatta con le “cattive”: evasori scovati e “puniti”. Altri 500 milioni di euro arrivano grazie alle “letterine” che il fisco invia ai contribuenti per notificargli quegli errorucci che sono comuque soldoni. Ma il dato vero, quello refrattario a ogni propaganda – e onore al merito, dunque, a Padoan per averlo rivelato: si vede che non c’è più al vertice l’affabulatore di Rignano, che gliel’avrebbe impedito – è l’aumento del livello dell’evasione: che l’anno scorso veniva indicato dal governo in 90 miliardi e quest’anno, invece, in 110. Sorvolando pietosamente sulla battuta del medesimo Padoan, secondo cui “il governo non strizza l’occhio agli evasori fiscali, ma ai contribuenti e alle imprese onesti”, soffermiamoci su questo dato. L’evasione è aumentata, non diminuita: perché?

Per varie ragioni. Ricordiamo, in premessa, che quel dato – i 110 miliardi di euro evasi – si riferisce al gettito evaso, ma corrisponde al triplo di reddito occultato! Ovvero, al nostro mega-sommerso, che per convenzione euro-statistica è quotato un po’ meno, cioè attorno al 16% del Pil, ma in realtà arriva a quei 330 miliardi circa, pari al 20% del Pil, che rappresentano una vetta insuperata nell’Eurozona. Ancora una volta: perché? Qui di solito sarebbe bene fermarsi, evasivi (scusate il bisticcio), per non scadere nel sociologiume d’accatto. E invece osiamo, e riepiloghiamole, le quattro “macro-aree” dell’evasione italiana.

La prima, diciamolo, è l’evasione di sussistenza, quella dei cittadini marginali, dei “lavoretti” in nero, del sottoproletariato urbano e suburbano, muratori, scaricatori, artigiani, delinquentelli. Povera gente che ci mancherebbe anche che pagasse le tasse.

La seconda è quella della piccola borghesia meridionale che vive nella sospensione dello Stato, il popolino magistralmente affrescato da “L’ora legale” di Ficarra e Picone, il popolo dell’abusivismo diffuso, dell’ecosistema extrastatale, costruito sull’indifferenza diffusa e collusa, insensibile a qualunque forma di normativa, refrattaria a multe e prescrizioni, che non paga tasse sul suolo pubblico, non paga multe, non paga imposta immobiliare, vive in villette abusive e gioca a tressette col vigile urbano, suo cognato, che dovrebbe fargli una contravvenzione per la quale ha ormai smarrito anche il modulo.

La terza macro-area è quella dei piccoli e medi imprenditori di tutta Italia, con maxiconcentrazioni sia nelle zone più ricche (il Triveneto) che in quelle ufficialmente più povere (Puglia e Sicilia), gli imprenditori che da vent’anni chiudono i bilanci in perdita – ma allora di che campano? – e che accumulano all’estero quei capitali che adesso, in percentuale irrisoria, pari alla percentale di ansiosi cronici che insiste in ogni fascia di popolazione, han deciso di reimpatriare con la “voluntary”.

La quarta e ultima area è quelli degli evasori tombali “semplici” – commercianti, professionisti, imprenditori – che appunto semplicemente occultano tutto o quasi il loro giro d’affari al fisco e quella dei criminali organizzati, una popolazione molto numerosa, che ovviamente non denunciano al fisco i proventi dei loro traffici delinquenziali.

Tutto prospera all’ombra compiacente di uno Stato che non c’è, e la faccia feroce di Befera – quello che mandava le camionette della Finanza negli alberghi di Cortina, scoprendo che al 50% evadevano, ma in questo modo soffocando per dieci anni le stagioni turistiche nella perla delle Dolomiti – non è servita a niente per reprimerle, e per questo oggi è giusto elogiare, se non altro, la rassegnata ma garbata moderazione della Orlandi.

Se ne può uscire? Chi lo sa? Certo, viene forte la tentazione di collaudare anche in Italia la “flat tax”. Di che si tratta? Di un’unica, bassa, aliquota fiscale. Vantaggiosissima rispetto alle attuali, progressive. Accompagnata da sanzioni feroce per chi la evade. Tanti gli esempi, tutti efficienti: Estonia, Lettonia e Lituania hanno rispettivamente una flat tax pari al 24%, 25% e 33% a partire dalla metà degli anni ‘90. Il 1º gennaio 2001 è stata introdotta al 13% sul reddito in Russia. L’Ucraina ha adottato come la Russia la flat tax del 13% nel 2003, poi aumentata al 15% nel 2007. La Romania ha adottato la flat tax 16% sul reddito e sugli utili delle aziende il 1º gennaio 2005.

Tutti staterelli poco rappresentativi dove però la flat-tax funziona. Il che non prova nulla, perché fino a poco tempo fa si trattava di Paesi dove il fisco era una pura barzelletta, non una barzelletta triste come da noi. Certo, anche in Italia varrebbe la pena provarla, e non sbaglia la Lega ad auspicarla. Ma è propaganda pura e semplice: la cessione di sovranità fiscale in cui consiste, sostanzialmente, il trattato di Maastricht lo impedirà. Nessuna Commissione europea germanocentrica autorizzerà mai un Paese come il nostro, soffocato dal 132% di debito pubblico sul Pil, a tentare la carta della flat-tax. Potrebbe risolvere molti dei nostri problemi, se non tutti. Ma chi, a Bruxelles, avallerebbe quell’atto di fede che dovrebbe sorreggere la scommessa bilancistica di passare dall’attuale sistema analitico e progressivo alla flat-tax? E cosa faremmo fare ai 50 mila dipendenti della macchina fiscale pubblica, se poi la flat-tax funzionasse? Svegliamoci, non è con i sogni che si fa politica.