È già stata battezzata la “diplomazia del golf”. Quando Donald Trump, appassionato golfista, sfiderà il premier giapponese Shinzo Abe sul green di Mar-a-Lago, adiacente alla sua villa in Florida, non andrà in onda solo la replica della sfida tra il presidente Dwight Eisenhower e il premier Nobusuke Kishi, il nonno di Abe che nel 1957 giocò una storica partita all’insegna della pacificazione tra i due grande nemici della Seconda guerra mondiale. Tra una buca e l’altra potrebbe veder la luce una nuova fase per gli equilibri economici e politici dell’area Pacifico. E, forse, non solo.



Il premier giapponese porta con sé nella sua visita ufficiale in America (la seconda a Trump dopo la sua vittoria ufficiale) un pacchetto impressionante di possibili accordi commerciali per venire incontro al programma di rendere “Great America again”. Secondo il quotidiano più diffuso in Giappone, Yomiuri Shimbun, il Primo Ministro Abe si prepara a offrire un ampio “Piano Usa-Giappone di cooperazione economica” nell’ordine di 450 miliardi di dollari, attraverso investimenti nelle ferrovie degli Stati Uniti e nelle infrastrutture, che permetteranno la creazione di 700.000 posti di lavoro in dieci anni. Il Giappone offrirebbe il finanziamento di questi progetti con prestiti a basso interesse, la mobilitazione di risorse dal fondo pensione pubblico del Giappone e di altri finanziatori pubblici.



Questa mobilitazione di risorse avverrà in un quadro di nuove relazioni commerciali: tramontata la formula dei grandi trattati multilaterali (vedi il Tpp da cui Donald Trump si è subito dissociato), prendono forma nuove regole bilaterali che potrebbero coprire, tra gli altri, tutti gli aspetti di e-commerce, proprietà intellettuale, appalti pubblici, del lavoro e finanziari. In sostanza un nuovo modello per il commercio internazionale basato su rapporti bilaterali. In particolare, Abe proporrà: a) che le aziende di Tokyo collaborino all’Alta velocità in Texas, California e sulla linea Washington-New York-Boston; b) lo sviluppo congiunto di robot e di progetti di intelligenza artificiale; c) lo sviluppo nello spazio; d) iniziative congiunte nella difesa e nella sicurezza; e) la creazione di una piattaforma condivisa nella fornitura di infrastrutture su scala globale.



Un progetto così ambizioso è destinato, naturalmente, ad avere grandi implicazioni politiche. Non a caso, alla vigilia della visita, Trump ha finalmente fatto una telefonata a Xi Jinping assicurando il presidente cinese che la linea tradizionale di Washington sull’esistenza di una sola Cina non cambia, con l’evidente obiettivo di non peggiorare ulteriormente i rapporti con Pechino in vista di uno scontro commerciale che sembra quasi inevitabile. Anche a Tokyo la svolta di Abe viene vista con una certa diffidenza: che ci guadagniamo a puntare in maniera così massiccia sugli Usa, si chiede il presidente della Mitsubishi? E il ministro Soga replica alle accuse Usa sullo yen debole ricordando che solo il 9% del deficit commerciale degli Usa (contro il 35% degli anni Novanta) dipende dal Giappone. Inoltre, negli ultimi vent’anni, le aziende giapponesi hanno effettuato investimenti per 411 miliardi di dollari sul suolo americano, Toyota in testa. Ma, al di là dei malumori molte cose legano i due premier, entrambi espressione di una forte personalizzazione della politica all’insegna del motto “prima il mio Paese” e di programmi economici e finanziari espansivi con molti punti di in comune.

C’è da chiedersi quali conseguenze potrà avere sul resto del mondo l’asse tra la prima e la terza economia del pianeta. Presto per dirlo, ma una cosa è ormai sicura: le relazioni tra gli Usa targati Trump e l’Unione europea sono destinate a restare difficili, se non pessime. L’Amministrazione americana, per bocca del neo rappresentante al Commercio Peter, ha già fatto sapere di considerare l’Ue uno strumento in mano alla Germania utile a rafforzare il crescente surplus tedesco salito oltre il 10% del Pil, un dato comunque anomalo e foriero di gravi squilibri. L’attivo commerciale, è il ragionamento, prima o poi si traduce in un aumento delle riserve e in un rafforzamento della valuta. Ma questo non vale per l’Europa, ove la Germania può sfruttare in contemporanea i vantaggi di un’economia forte assieme a quelli garantiti da una moneta indebolita dalla compagnia di Grecia e Italia. Perciò, è il messaggio in arrivo da Washington, reagiremo con alti dazi contro l’import tedesco. Ovvero contro l’Europa tutta, perché è l’Ue a rappresentare la posizione del Vecchio continente in sede il Wto.

Difficile individuare una posizione di compromesso, soprattutto in un anno elettorale per Germania e Francia. Di qui la previsione di un aspro confronto tra gli (ex?) alleati atlantici. Da Washington sta crescendo la pressione contro Bruxelles, favorita dall’ascesa dei partiti euroscettici. Da Berlino si è reagito, finora, con un appello all’unità, la soluzione più sensata purché la Germania sappia dare le risposte finora mancate in tema di mutualità sui conti.

Una grande faglia attraversa l’Europa, divisa tra populisti ed europeisti. E presto sarà necessario scegliere.