La manovra correttiva chiesta dall’Unione europea sta diventando l’occasione per uno showdown all’interno del Partito democratico con ricaduta diretta sul Governo. La pressione di Bruxelles (l’ultimatum come lo chiama la Repubblica) che vuole vedere già entro il 22 di questo mese le misure per recuperare 3,4 miliardi di euro, rischia di provocare un terremoto politico con effetti del tutto paradossali.
Primo paradosso: Matteo Renzi ha colto al volo l’occasione per un affondo. “Non voglio vedere aumenti delle tasse”, ha proclamato. Per la verità non lo vuole nemmeno l’Ue. È il governo Gentiloni che sta cercando scorciatoie per rastrellare le risorse necessarie senza dover rivedere l’intero impianto della Legge di bilancio, operazione forse troppo complicata per un esecutivo di transizione. Così, è spuntata la solita solfa di aumentare le accise, a cominciare dalla benzina, la moderna tassa sul macinato. Un ritocco e zac, le entrate sono assicurate senza troppi scossoni. Certo ci sarà qualche mugugno, ma alla fine tutti sono abituati, con la benzina stiamo ancora pagando il terremoto del 1980 in Campania. Un calcolo sbagliato. Non c’è nulla di più impopolare e avrebbe un effetto negativo sul piano psicologico.
Su questo Renzi e l’Ue la pensano allo stesso modo. La convergenza finisce qui, perché il segretario del Pd non propone alternative, ma solo di rilanciare la polemica e guadagnare tempo. E arriva il secondo paradosso. Renzi non può non sapere che questa volta arriverebbe la procedura d’infrazione con un sicuro effetto negativo sui mercati dove il debito italiano viene considerato poco più che spazzatura. Jens Weidmann è stato tranchant: il debito italiano è destinato a restare sopra il 130% del prodotto lordo; l’Italia non è in grado di ridurlo. Un campanello d’allarme che va al di là delle tradizionali posizioni del presidente della Bundesbank.
Pier Carlo Padoan spera che un miglioramento della crescita, sia pur piccolo, infinitesimale se vogliamo, possa far recuperare fino a mezzo miliardo di euro. Con queste cifre si presenta domani alla direzione del Pd. E qui veniamo al terzo paradosso. Il ministro dell’Economia si fa dettare la linea dal partito (del quale, tra l’altro non fa parte formalmente), anzi dal segretario uscente? Oppure la riunione è un seminario di politica economica e il suo ruolo consiste nel presentare un paper? Se il problema è aprire un dibattito politico sulla manovra correttiva, allora la sede giusta sarebbe il Parlamento.
Padoan rischia di offrire il fianco alla forzatura politica di Renzi, proprio lui che invece rappresenta il supporto principale di Gentiloni, il cui proposito sembra proprio di arrivare alla fine della legislatura come vorrebbe anche il presidente Mattarella. È il quarto paradosso in questa commedia degli errori. Il segretario del Pd vuole andare alle elezioni a giugno, ha intenzione di dimettersi, convocare le primarie al più presto e vincerle, mettendo nel frattempo in mora il Governo. L’occasione è la manovra correttiva, il no alle tasse e il no al diktat dell’Ue sono due parole d’ordine popolari adatte a tagliare l’erba sotto i piedi a Beppe Grillo. È un gioco pericoloso, ai limiti del vero e proprio azzardo.
Il Pd è attraversato da molte fratture interne; non si tratta solo della sinistra, delle minacce di scissione, delle manovre di Massimo D’Alema. È che stanno emergendo forti divergenze anche nella maggioranza tra i renziani duri e puri che cercano una rivincita con un colpo di mano, e chi ritiene l’ex capo del governo talmente segnato dalla cocente sconfitta da non essere più riproponibile come candidato premier. Di qui la voglia di prendere tempo per far maturare un’alternativa (Franceschini, Gentiloni, Padoan o qualcun altro).
Siamo arrivati al quinto paradosso: può darsi che Renzi sia un purosangue azzoppato, ma per trovare un sostituto ci vuole tempo e ciò rischia di lasciare campo a tutte le opposizioni: il Movimento 5 Stelle, naturalmente, il centro-destra che cerca di riorganizzarsi, la destra che spera in un eventuale effetto Le Pen, la sinistra che vuol creare in Italia qualcosa di simile a Podemos o a Syriza e chissà cos’altro verrà fuori di qui alla primavera del 2018.