Puntuale come morte e tasse, la Commissione europea ieri ha voluto mettere in guardia il nostro Paese dal rischio di instabilità politica e lo ha fatto con i suoi metodi, ovvero alternando il bastone del diktat alla carota di un aumento pressoché impercettibile delle nostre stime di crescita. Bruxelles ha infatti confermato la previsione per l’Italia per quest’anno (+0,9%), ma ha rivisto leggermente al rialzo quella per l’anno scorso, +0,9% contro una precedente stima di +0,7%, e per il prossimo, +1,1% mentre a novembre aveva previsto un +1%. C’è da festeggiare? Basti dire che per il 2017 e il 2018 si tratta dei livelli più bassi di crescita dell’intera area Ue. «In Italia si prevede una crescita del Pil dello 0,9% quest’anno, allo stesso livello del 2016 e un leggero aumento nelle stime per il 2018, sostenuto dai bassi tassi d’interesse e da una forte domanda esterna, ma le debolezze strutturali ostacolano una ripresa più forte», ha sottolineato il commissario Ue agli Affari economici e finanziari, Pierre Moscovici, durante la presentazione delle Previsioni economiche d’inverno.
In base a queste stime, la crescita dell’Italia è definita «stabile ma modesta» e si evidenzia come sia sostenuta dai bassi tassi di interesse e da una domanda esterna più forte, mentre le debolezze strutturali ostacolano una ripresa più forte ed esistono rischi al ribasso a causa dell’incertezza politica e del lento aggiustamento del settore bancario. Nelle previsioni d’autunno, pubblicate prima del referendum sulla riforma costituzionale, la Commissione Ue aveva già indicato tra i rischi per l’economia italiana l’incertezza politica e i ritardi nella ristrutturazione del sistema bancario. Tuttavia per l’esecutivo comunitario, ci sono anche fattori che potrebbero accelerare la ripresa: «Un impulso più forte alla crescita potrebbe ancora verificarsi grazie alla domanda esterna».
Bruxelles ha poi rivisto leggermente al rialzo le stime sulla disoccupazione in Italia: il tasso ddei senza lavoro è destinato a rimanere «sopra l’11% nell’orizzonte delle previsioni» e in particolare, dopo un 11,7% nel 2016, dovrebbe ridursi solo marginalmente all’11,6% quest’anno e all’11,4% nel 2018. A novembre i tre dati erano rispettivamente stimati all’11,5%, all’11,4% e all’11,3%: «La creazione di posti di lavoro scenderà rispetto al periodo 2015-2016, quando era stata sostenuta da una riduzione triennale dei contributi sociali». Insomma, speranze zero. E qui sorge la prima domanda: visto che stiamo seguendo pressoché alla lettera le indicazione dell’Ue, non è che sono queste ultime ad andare nella direzione sbagliata in fatto di crescita e occupazione?
In compenso, sale fin troppo in fretta il dato dell’inflazione. Dopo un dato negativo per l’intero 2016, quando l’andamento dei prezzi al consumo ha registrato in Italia una flessione dello 0,1%, l’inflazione è destinata a salire all’1,4% annuo nel 2017 e a stabilizzarsi all’1,3% nel 2018, grazie soprattutto al rialzo dei prezzi dell’energia. Infine, Bruxelles ha rivisto leggermente in peggio le previsioni sui conti economici del Bel Paese: per quest’anno stima un rapporto deficit-Pil al 2,4%, per il 2018 al 2,6%, mentre il debito-Pil salirà quest’anno al 133,3% per poi limarsi al 133,2% il prossimo. Quanto al deficit strutturale di bilancio, è atteso al 2% del Pil quest’anno e al 2,5% nel 2018.
Sul finale, poi, la certificazione delle presa in giro, ovvero il fatto che la Commissione ci tiene talmente tanto al guinzaglio da poter anche azzardare dei complimenti: l’alto organismo comunitario, infatti, «ha preso nota in modo positivo dell’impegno preso pubblicamente dal governo italiano di adottare misure di bilancio aggiuntive pari complessivamente allo 0,2% del Pil entro aprile di quest’anno». Di più, le misure, è precisato nel testo, saranno prese in considerazione dalla Commissione Ue «non appena saranno disponibili dettagli sufficienti a valutare le specifiche disposizioni che saranno promulgate».
E a proposito di correzione dei conti, stando a indiscrezioni di stampa del fine settimana, l’Ue ha chiesto a Roma di presentare i dettagli entro il 22 febbraio, quando sarà presentato il rapporto sul debito pubblico italiano: «Ho letto negli ultimi giorni la stampa: noi incoraggiamo il governo ad adottare quanto prima le misure, ma questo non va visto assolutamente come una specie di ultimatum», ha precisato in merito Moscovici. Fin qui, il compitino. Il problema è che le istituzioni europee si scordano sempre di menzionare le cose importanti, le dinamiche sottotraccia che, una volta disvelate, renderebbero visibile a tutti il bluff che stanno portando avanti.
Per preservare lo status quo, infatti, si agita lo spettro dell’instabilità politica a causa dei montanti “populismi”, ma si tratta di un clamoroso caso di confusione tra causa ed effetto: la causa dell’instabilità non sono i movimenti anti-establishment, bensì le politiche europee (Bce compresa) che hanno portato la gente all’esasperazione, dando vita all’effetto della crescita di partiti e movimenti dichiaratamente anti-europeisti e sovranisti. Comodo dare la colpa di tutto a Grillo o alla Le Pen, se la gente stesse bene per la maggior parte non si sognerebbe di mettere in discussione l’attuale assetto di potere, anzi chiederebbe la sua prosecuzione. E ve lo dico, perché tra poco partirà in grande stile la demonizzazione del Front National in Francia, visto che la sua candidata alle presidenziali ha agitato lo spettro del Frexit, ovvero l’uscita della Francia da Ue ed eurozona e il ritorno al franco.
Non accadrà mai, perché al secondo turno le forze politiche tradizionali si uniranno per sconfiggere la Le Pen, ma state certi che la narrativa, da qui al voto francese, sarà improntata al terrorismo economico-finanziario. Prendiamo proprio la Francia, dove la scorsa settimana l’Agence Francaise de Developpement, un’ente a controllo statale, ha rinviato un’emissione obbligazionaria da 1 miliardo di euro per ordini insufficienti a causa proprio delle preoccupazioni degli investitori per il quadro politico troppo frammentato in vista delle presidenziali, come ha confermato Bokar Cherif, capo del dipartimento del Tesoro. Di fatto, la stessa tensione che si sta registrando sui bond sovrani francesi, come ci mostra questo grafico. In compenso, nel corso della stessa settimana si sono tenute emissioni di soggetti corporate, la cui percezione di rischio è certamente maggiore di quella dello Stato francese, ma che hanno registrato bid-to-cover da record: Molnlycke Holding AB, un produttore di strumenti chirurgici, è tornata alle emissioni per la prima volta dal 2015 con obbligazioni per un controvalore di 500 milioni di euro e domanda 5,4 volte maggiore dell’offerta, mentre la linea aerea low cost Ryanair ha registrato richieste 3 volte superiori all’offerta, oltretutto in un periodo di prezzi del petrolio in traiettoria di rialzo, quindi una liability pesante per un vettore.
Insomma, pare che soltanto Agence Francaise de Developpement, ente che detiene il terzo rating investment-grade più alto e finanzia progetti sostenibili in nazioni in via di sviluppo, abbia fatto cilecca sul mercato: «Le performance dei nostri bond sono completamente legate a quelle delle obbligazioni sovrane. Gli investitori stanno cercando di difendersi dalla situazione politica in Francia, tutto ciò che possiamo fare è prendere atto di questi timori e tenerne conto nella pianificazione per il futuro», ha confermato Bokar Cherif.
Ora, voi pensate che chi opera davvero sul mercato sia così pazzo da pensare che la Le Pen diventerà presidente e darà vita al Frexit? In Francia, con la legge elettorale vigente, occorrerebbe che al primo turno il candidato del Front National prendesse oltre il 50% dei consensi e, oggi come oggi, i sondaggi più positivi la vedono al 27%. Che sia Macron o Fillon poco conta, chi andrà al ballottaggio avrà il sostegno dell’altro partito istituzionale, è la regola della Republique in questi casi. Quindi, al netto dello stress che sta montando nell’eurozona a causa delle molte scadenze elettorali, non sarà che il flop di Agence Francaise de Developpement sia legato anche ad altro? Ovvero, il rendimento che offre rispetto a quello di altri emittenti junk o quasi e, soprattutto, l’idea che prende forma nel mercato che il Qe della Bce non potrà durare in eterno, quindi si compra ciò che offre un rendimento finché dura la pacchia, tanto per i beni rifugio ci sarà tempo.
Trovo sgradevole dare alla Le Pen colpe che sono pressoché in toto di Draghi, voi non convenite? Tanto più che non ci vuole un genio per capire che i segni dell’inflazione monetaria si trovano sia nel cuore dell’Europa (Germania), sia nella periferia. Ciò comprende bassi spread di credito e gigantesche operazioni di carry trade che si sono formate in valute (fuori dai tassi negativi europei e dentro le valute estere), credito (fuori dal rischio di credito basso e dentro il rischio di credito alto) e premi di termine (fuori dai titoli di stato a breve maturità e dentro quelli a lunga maturità). E qualsiasi inversione dei carry trade nel bel mezzo di un calo dei mercati finanziari globali, renderebbe vulnerabile l’élite politica tedesca alla rabbia popolare in un periodo antecedente le elezioni. Senza una tale inversione vi sarebbe il rischio di una salita dell’inflazione, altro anatema per tanti elettori tedeschi, specialmente nel contesto di tassi nominali a zero o negativi.
Il voto più forte contro l’élite è un voto per il partito Alternative fur Deutschland (AfD), oppure il partito della sinistra, la Linke. Anche qui, chi è causa e chi effetto di quanto sta accadendo in Germania? L’AfD o le scelte della Bce? Finiamola con questa manfrina del populismo, la gente ormai non ci casca più. E sa riconoscere chi è il vero responsabile dell’incendio che sta divampando.