Non è vero che dalla direzione del Pd di lunedì pomeriggio è uscito un sostanziale nulla di fatto. Certo, ora toccherà attendere l’assemblea del partito che nel fine settimana deciderà la data del congresso (vagamente bizantini nelle procedure, qualcuno li avverta che siamo nel 2017), ma da Roma è arrivata un’indicazione di fondamentale importanza: chiunque agiti lo spettro dello spread per evitare il voto, mente sapendo di mentire. Ieri mattina alle 11, quando ho cominciato a scrivere questo articolo, il differenziale tra il Btp e il Bund era a 184 punti base, in calo del 2,56% rispetto al giorno prima e questo nonostante dalla direzione del partito che di fatto regge il governo Gentiloni sia uscito il caos più totale, una vera e propria guerra tra bande che provo a riassumere. Matteo Renzi ha dato vita a un’inutile lectio magistralis sui cambiamenti in atto nel mondo, da Trump alla Le Pen, prima di entrare nella carne viva del discorso: ovvero, avete voluto il congresso minacciando le carte bollate, ora andiamo a congresso. 



Di più, in una sua frase ha racchiuso due contenuti, quando ha parlato delle tre banchette toscane fallite. Primo, sprezzo per la gente che in quelle banchette toscane ha perso tutto o quasi, quindi dimostrazione del suo scollamento sempre più netto dal Paese reale. Secondo, la volontà di resa dei conti con Massimo D’Alema, perché quando ha agitato lo spettro della Commissione d’inchiesta sul sistema bancario ha parlato sì di banche pugliesi – facendo pensare a qualcuno a un attacco al suo diretto competitor per la segreteria, Michele Emiliano -, ma ha fatto chiaramente il nome di Banca 121, ovvero la banca del duo D’Alema-De Bustis (ex Deutsche Bank), un qualcosa che fa capire come, se si arrivasse agli stracci, gli scheletri nell’armadio delle commistione politica-credito farebbero danni e feriti ovunque nel partito. 



Che dire poi di Pier Luigi Bersani, il quale ha offerto due certezze del suo pensiero: primo, la legislatura deve arrivare a scadenza naturale il prossimo anno e, secondo, basta con la globalizzazione e le ricette liberiste. Insomma, l’uomo delle liberalizzazioni, fiutando l’aria di destra che spira dall’Atlantico, non dico che sposi il protezionismo, ma, comunque, manda allegramente in pensione l’intera stagione della Terza Via blairiana che aveva caratterizzato la vita del Pd di governo. Di fatto, c’è poi chi è arrivato a paventare il rischio scissione nel partito legando questa minaccia non a rotture ideali o politiche, ma alla data del congresso: insomma, ripeto, una guerra tra bande. E stiamo parlando del partito architrave del governo in carica, sintomo che l’intera impalcatura è pronta a crollare, visto che il segretario vuole votare – se non a giugno, a ottobre – e la sua minoranza vuole invece arrivare al 2018. 



Se fosse vera la balla dello spread e del rischio Paese, dove sarebbe dovuto volare ieri mattina il nostro differenziale nei confronti del Bund? Alle stelle, direi, visto che siamo in pieno rischio di crisi di governo. E, invece, guarda caso è calato, tornando nella più rassicurante area dei 180 punti. I mercati hanno forse letto nel caos della direzione un addio alle urne anticipate? Può anche essere, ma voi davvero pensate che analisti finanziari che devono fare i conti con il carry trade valutario abbiano passato il pomeriggio seguendo la diretta di Mentana e soppesando ogni singola parola pronunciata da Roberto Speranza o Maurizio Martina? Pensate che il richiamo all’ecologismo di Graziano Delrio abbia infuso ottimismo verso i nostri conti pubblici, il nostro sistema bancario e, più in generale, la sostenibilità del sistema Italia? 

Per favore, non prendiamoci in giro: il Paese è in queste condizioni da decenni ormai, pensate che sia la data del voto post-Gentiloni a scatenare la sell-off dei mercati e il rischio default? Certo, la Germania spinge per il nostro commissariamento attraverso un emendamento nascosto nell’articolo 507 del Regolamento sui requisiti patrimoniali delle banche, di fatto aumentandoli a tal punto da far scattare meccanismi interni al Mes e all’Omt della Bce tali da far arrivare la Troika diritta a palazzo Chigi, ma ricordiamoci una cosa. Martin Schulz, candidato alla Cancelleria dell’Spd, attualmente dato in vantaggio sulla Merkel, ha detto chiaramente queste parole: «Non c’è Paese che abbia approfittato dell’euro più della Germania. Proteggere l’euro non è svendere gli interessi della Germania, è metterli in cassaforte». Pensate che con un’Italia commissariata e politicamente instabile come mai, l’euro sarà in cassaforte, oltretutto in piena guerra valutaria globale? 

Vale lo stesso discorso per la minaccia del Frexit, ovvero l’uscita della Francia da euro e Ue in caso di vittoria della Le Pen: balle, il Front National non vincerà mai. E non lo dico solo io, ieri lo ha certificato anche Credit Suisse in un suo report: Marine Le Pen non vincerà le elezioni presidenziali francesi. La candidata del Front National «resta al primo posto nelle intenzioni di voto al primo turno e ci si aspetta quindi che vada al ballottaggio, dove però è data nettamente perdente a favore di Francois Fillon o di Emmanuel Macron». Inoltre, per gli analisti svizzeri questa volta la prospettiva è diversa rispetto a Brexit o Trump: il rilevamento dei sondaggi in questo caso è ben oltre il margine di errore, il che segna una netta differenza rispetto al referendum britannico o alle elezioni negli Stati Uniti. In più, a meno che Le Pen non migliori in modo considerevole nei sondaggi, per gli esperti lo stress finanziario dovrebbe restare circoscritto: il sistema bancario francese appare sufficientemente resiliente per superare episodi di turbolenza senza ricadute per l’economia reale. 

Senza dimenticare che, in ogni caso, il potere del Presidente francese di lasciare l’euro e ridenominare il debito appare fortemente limitato dalla Costituzione e dal Parlamento. Inoltre, se le turbolenze sui costi di provvista delle banche o sugli spread dovessero farsi estreme, la Bce resta pronta a intervenire. Lo dicono analisti finanziari, non il sottoscritto che non capisce nulla. E ancora, ieri l’Istat ha stimato la crescita del Pil italiano per il 2016 allo 0,9%, in attesa di pubblicare (il prossimo primo marzo) la dinamica definitiva dell’economia tricolore con i nuovi conti annuali. Un dato che, se confermato, sarà il migliore dal 2010 e che supera quello contenuto nel Documento programmatico di bilancio consegnato dal governo Renzi all’Europa nello scorso autunno: allora l’esecutivo si immaginava – con una netta revisione al ribasso dagli obiettivi iniziali – una crescita del Pil per il 2016 allo 0,8%, cui dovrebbe far seguito una espansione dell’1% quest’anno e quindi dell’1,2% nel 2018. È invece in linea con le stime della Commissione Ue pubblicate lunedì, stando alle quali il Pil sarebbe cresciuto appunto dello 0,9% nel 2016, per confermarsi nel 2017 e quindi salire dell’1,1% nel 2018. 

Avvalorando allora le previsioni di Bruxelles, ne potrebbe derivare un beneficio in termini di disavanzo: stando all’Ue, il 2016 si è chiuso con un deficit/Pil al 2,3%, mentre il governo stimava il 2,4%. Immediato il tweet di Paolo Gentiloni: «Dati Istat su Pil incoraggianti. Governo determinato a proseguire riforme per favorire la crescita». Insomma, serve restare fino al 2018, almeno qualche altro zero virgola, benedetto da Bruxelles, potrebbe fare capolino. Tanto più che grazie a questo 0,1% in più di crescita, il fabbisogno per la manovra correttiva chiestaci dall’Europa scende da 3,4 a 3 miliardi di euro, evitando così un intervento troppo drastico sulle accise, quello che aveva fatto infuriare con l’esecutivo proprio Matteo Renzi. Insomma, la solita partita di giro tra Roma e Bruxelles. 

Sapete qual è la realtà di quel dato, invece? Che la media dell’eurozona è al +1,7%. Ma si festeggia e si fanno promesse per il futuro, pronti a brandire lo spread, pur di non andare al voto prima del 2018. Non siete stufi di questa pantomima?