Quale Azienda-Italia potrà entrare nei parametri in quale “nuova Europa”? La Ue “di prima velocità” c’è già, si chiama Eurozona e, in premessa, i 19 attuali paesi-membri resteranno a bordo: lo ha chiaramente prospettato Angela Merkel, subito dopo aver incontrato il presidente della Bce Mario Draghi. Il cancelliere tedesco ha corretto la durezza iniziale su una scissione dell’Unione in “due velocità”. Fra politica interna tedesca – proiettata al voto di settembre – e geopolitica ridisegnata dall’avvento di Donald Trump negli Usa, Merkel si accinge ora a formalizzare la riforma dell’Europa come progetto politico-istituzionale: a fine marzo a Roma, in occasione del sessantesimo anniversario dell’originario Trattato Mec.



Il cancelliere tedesco punta con ogni evidenza a rafforzare la sua candidatura per un quarto mandato a Berlino, come leader di un’Europa resistente alle spinte centrifughe di tutti i populismi continentali. L’assenso del presidente francese uscente François Hollande è assai probabile, a un mese dal prevedibile ballottaggio presidenziale fra Emmanuel Macron e Marine Le Pen. Il premier italiano Paolo Gentiloni ha già espresso il suo favore di principio (e dietro di lui, tacitamente, il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella): anche se in Italia non è ancora chiaro se si voterà nel febbraio 2018 o subito in scia al voto tedesco.



Se comunque la striscia dei risultati elettoriali sarà favorevole alla “governabilità europea” nei tre paesi-fondatori, un’agenda condivisa prevedebbe la rapida messa in riscrittura di regole economico-finanziarie fra i 19 Paesi che adottano l’euro: dalla Germania all’Italia, dalla Grecia alle repubbliche baltiche, dalla Francia a Malta. Ma come si aggiusteranno le regole? A quali condizioni l’Italia potrà restar dentro l’Eurozona promossa a “Ue-1”?

Il “compito a casa” che verrà assegnato a Roma – con qualunque aggiustamente di regole – è per gran parte scritto: ridurre il debito pubblico e mettere in sicurezza il sistema bancario. Nel contempo l’Azienda-l’Italia dovrà accelerare la ripresa recuperando competitività industriale. Sono i traguardi che il Paese ha regolarmente mancato dopo la svolta del 2011 e il susseguirsi dei governi Monti, Letta e Renzi. Sono gli insuccessi che governo Renzi e l’opinione pubblica hanno attribuito con forza crescente alla “disunione europea”: all’applicazione impropria e discriminatoria dei parametri tecnocratici dei Trattati di Maastricht, si trattasse di concedere all’Italia flessibilità sugli investimenti pubblici o sul salvataggio di Mps.



È su questo fronte – critico anche in questi giorni per la richiesta della Commissione Ue di una manovra correttiva – che la riforma europea promette un cambiamento significativo. L’istituzione di un “ministro delle Finanze europeo” – un vero pari grado dei suoi colleghi nazionali, di livello diverso e superiore all’attuale commissario Ue agli affari economici – darebbe un centro di gravità a una politica fiscale integrata: sottratta ai “vecchi” eurocrati e restituita alla sua piena elasticità politica.

Il cambio di struttura e di passo di un’Europa con meno Bruxelles, più Francoforte e forse più Strasburgo consentirebbe all’Italia di impegnarsi su piani poliennali (“mille giorni”). La cassetta degli attrezzi del “taglia debito” non è vuota (a cominciare dalla cartolarizzazione degli immobili pubblici), né la strumentazione “salva banche”, ripartendo dalla bad bank.

Se l’Italia dovrà percorrere la via stetta fra credibilità e sostenibilità di una grande manovra strutturale, la Merkel dovrà battere anzitutto i rigoristi del suo partito: avversari della riforma europea forse più degli xenofobi di Alternative fur Deutschland. E se anche i numeri elettorali dovessero dare a Martin Schulz la guida di una nuova “grande coalizione” a Berlino, il programma sarebbe già disegnato.