Ormai è una conferma quotidiana, sta diventando quasi patetico il giochino posto in essere. I due grafici a fondo pagina sono esemplificativi. Il primo ci mostra l’ultimo check sulle possibilità di vittoria di Marine Le Pen alle presidenziali francesi, il quale conferma che l’altra notte si è raggiunto il livello massimo da sempre. Non ci vuole il cervello di Marconi per capire il perché: la gente non anela a uscire dall’euro di colpo, né sbava nell’attesa di rimettere il franco nei portafogli, ma da giorni le banlieue parigine stanno letteralmente bruciando, con continui atti di vandalismo in seguito all’arresto e al pestaggio del giovane spacciatore Theo. La gente vuole legge e ordine, non il franco francese in tasca e l’unica ad aver detto che quei quartieri sono ostaggio di “immondizia” è stata Marine Le Pen. Ma si sa, i mercati sono un po’ cani di Pavlov e un po’ paraculi, scusate il termine, quindi reagiscono immediatamente agli stimoli che arrivano dalla politica: detto fatto, il costo per le opzioni a 3 mesi sul Cac 40, l’indice principale della Borsa francese, sono salite al massimo da 5 anni rispetto a quelle per l’Euro Stoxx 50 e il rischio di credito della Francia è salito ai massimi da 4 anni a questa parte. 



Calcolate che il primo turno si terrà il 23 aprile e il secondo il 7 maggio: cosa succederà da qui ad allora? Quali strategie di terrorismo mediatico e finanziario verranno messe in campo per evitare che i francesi abbiano il presidente che vogliono, ma che non piace ai mercati? Tanto più che tutti sanno che la Le Pen, per quanto possa vincere al primo turno, al secondo sarà schiacciata dall’ammucchiata repubblicana che convergerà sul candidato “istituzionale”, chiunque esso sia. E il fatto che martedì Emmanuel Macron abbia denunciato incursioni di hacker russi nel sistema informatico del suo partito, En Marche!, la dice lunga su cosa ci aspetta e su chi muove i fili in favore nell’enfant prodige della politica transalpina. 



Il secondo grafico conferma la mia tesi. Si riferisce al sondaggio mensile condotto da Bank of America-Merrill Lynch tra i manager di fondi e chiede loro quale ritengono che sia il tail risk più probabile nel futuro prossimo: bene, per il 36% dei 175 manager interpellati, il rischio sistemico maggiore è dato dall’aumento del rischio di disintegrazione dell’eurozona a causa delle elezioni in programma nell’Ue, seguito dal 32% che teme la guerra commerciale che potrebbe essere innescata dalle politiche di Trump. Insomma, qui non si tratta di veicolare gli investimenti in modo da operare hedging su determinati rischi, qui si vogliono pilotare le elezioni attraverso il terrore, esattamente la stessa operazione che compie chi sbandiera a giorni alterni lo spauracchio delle spread. A questo punto, aboliamo il voto popolare e facciamo prima, i governi li decidano direttamente gli amministratori delegati di banche e corporations. 



Occorre capire una cosa e capirla chiaramente, se si vuole avere strumenti qualificanti per decrittare questi tempi così strani e così straordinari: la gente è stufa dell’economia e della finanza come unici motori immobili del mondo, soprattutto è stufa di una politica che si fa dettare tempi e modi dalle Banche centrali o dalle Borse. Volete un esempio plastico? Martedì i mercati sono stati con il fiato sospeso per l’audizione di Janet Yellen di fronte alla Commissione bancaria del Senato Usa e sapete cosa ha fatto la numero uno della Fed? Ha attaccato frontalmente Trump, tanto da far parlare molti osservatori di un aperto conflitto tra i due poteri Usa. Prima ha dichiarato che rallentare l’immigrazione probabilmente rallenterebbe la crescita economica, il cui livello è già deludente, poi però ha lodato quanto ottenuto da Obama, soprattutto i 16 milioni di posti di lavoro creati: peccato che fossero tutti part-time, al minimo salariale e in comparti come la ristorazione e il tempo libero, mentre la manifattura ha visto soltanto emorragie occupazionali. 

Di più, basta vedere i dati scomposti per vedere che a beneficiare maggiormente delle assunzioni sono stati gli over 55, ovvero gente disperata di arrivare alla pensione che accetta qualsiasi condizioni e qualsiasi salario. La Yellen è in malafede politica totale, ma tutti i giornali ieri la lodavano, solo perché ha attaccato Trump: spiacente, cari soloni del politicamente corretto, gli americani hanno scelto lui, non chi trafugava mail secretate su un server privato per farle sparire. Ma non basta. Quanto alle politiche di bilancio annunciate da Trump, in un menu che comprende un choc fiscale, un taglio delle tasse e 1 triliardo di dollari di investimenti, la Yellen ha invitato alla prudenza nel varare le misure: «Spero che i cambiamenti saranno compatibili con l’obiettivo di mantenere il bilancio degli Stati Uniti su una valida strada. I possibili cambiamenti della politica di bilancio e anche gli altri rappresentano una fonte di incertezza per le prospettive dell’economia». Una cosa è certa, fare meglio di Obama è missione semplicissima. Dopodiché, la Yellen ha avuto il coraggio di mettere in guardia da spese eccessive che sbilancino il rapporto debito/Pil: giusta annotazione da parte della numero uno della Fed, peccato che sia la stessa persona che ha lodato le politiche di Obama pochi istanti prima. E sapete di quanto è cresciuto il debito totale Usa nei due mandati di Barack Obama? Del 77,2%! Non siamo in pieno territorio di malafede? 

Ma la Yellen ha detto anche altro, ovvero che non è saggio aspettare troppo nel rialzare i tassi, facendo quindi intravedere la possibilità di un nuovo ritocco all’insù già nel meeting del Fomc di marzo. Il motivo? La politica reflazionistica di Trump, ovvero il fatto che gli annunci di investimenti hanno già fatto muovere al rialzo le prospettive dell’inflazione a 12 mesi, quindi meglio agire: peccato che quell’inflazione è buona, ovvero frutto di investimenti che poi andranno a contagiare anche i salari e quindi i prezzi dei beni acquistati, mentre la Yellen si muove con l’unico intento politico di destabilizzare i mercati, operando sull’inflazione cattiva creata proprio dalla Fed attraverso prima Operation Twist e poi il Qe. 

Il gioco è semplice: Wall Street vede il Dow a 20.500 punti, un record assoluto e si continua a comprare come se non ci fosse un domani. Peccato che le valutazioni degli assets comincino a essere totalmente fuori controllo a livello di multipli di utile per azione e anche i buybacks azionari, l’unico motore dei rialzi, diventeranno più costosi con un aumento del costo del denaro attraverso il rialzo dei tassi: per finanziare l’acquisto di titoli, infatti, si emette debito, ma se salgono i tassi non sarà più un’operazione così economica. Insomma, stiamo raggiungendo il punto di non ritorno. Quindi, meglio agire subito: un bello shock sui tassi, oltretutto annunciato, potrebbe innescare tensioni sia sul dollaro, il quale vede il trade long sulla sua valutazione come il più trafficato al mondo, sia sull’azionario che sull’obbligazionario. Unite a questo i timori per la nuova politica economica e le tensioni politiche legate all’eurozona ed ecco che il cocktail è servito: qualche settimana di paura e la Fed, a furor di popolo, dovrà cambiare registro, consentendo da un lato a Wall Street di continuare a operare come un casinò di Las Vegas e al Congresso di gettare su Trump e le sue politiche la colpa del crollo potenziale dei mercati, riportandolo a più miti consigli. 

È questo che la gente non vuole più, l’economia e la finanza che dettano legge. Impossibile tornare indietro in un mondo finanziarizzato dalla globalizzazione? Volendo si può fare tutto, a partire da restrizioni molto severe su operazioni speculative relative al debito sovrano degli Stati e a una rigorosa due diligence sull’operato delle agenzie di rating. Volendo, però.