Non è certo un caso che Francia e Italia occupino le posizioni di coda nella classifica azionaria di inizio 2017. Piazza Affari al 10 febbraio registrava un rialzo dell’1,5%, Parigi faceva meno ma non troppo con un modesto +0,5%. Anche senza scomodare la corsa scatenata di Wall Street, drogata dall’effetto Trump, basti dire che l’indice Msci, costruito su un paniere di 46 mercati, registrava una crescita del 5,6%. Negli ultimi giorni, poi, gli operatori che si occupano dei mercati del debito non si limitano più a scrutare lo spread tra i Btp e il Bund tedesco. Ma è entrato nel mirino anche l’Oat francese, bersagliato dalle prime raffiche della speculazione a dieci settimane dal primo turno delle presidenziali. E, naturalmente, ha trascinato al ribasso anche il Btp, già di suo debole viste le nuvole che si addensano sulla finanza pubblica italiana in vista di una stagione di rialzo dei tassi.
È una situazione destinata a durare mesi, se non di più. La partita elettorale francese si chiuderà solo con il ballottaggio dell’8 maggio, dopo aver riservato non poche emozioni. Il toto Eliseo, a prima vista, sembra quasi scontato: affermazione di Marine Le Pen al primo turno, ma sconfitta della candidata del Front National al ballottaggio davanti al ruspante Emmanuel Macron, ex banchiere, ex ministro del governo socialista, europeista convinto in un Paese sempre più euroscettico. Tradotto in termini borsistici, uno scenario molto allettante, purché non ci siano sorprese: i titoli di Stato parigini dovrebbero perdere colpi tra il primo e il secondo turno (ovvero tra il 20 aprile e l’8 maggio) salvo celebrare al rialzo il successo dell’emergente Macron. Più difficile che lo sfidante sia Fillon, azzoppato dallo scandalo dello stipendio da assistente parlamentare alla moglie (abitudine, almeno in passato, in uso anche dalle nostre parti).
Insomma, una primavera che potrebbe esser rovente se qualcosa non filasse liscio. A far da contorno ci sarà al solito l’Italia: la possibile spaccatura in due (o comunque in più pezzi) del Pd rilancerebbe alla grande l’ipotesi di un governo 5 Stelle assieme ad altre forze euroscettiche, Lega in testa. Uno scenario confuso da cui emerge un una sola certezza: formare un governo sarà davvero difficile.
Non è certo un caso che le vicende politico e macroeconomiche s’incrocino con le ragioni del business. Jean Pierre Mustier, ceo di Unicredit, ha appena completato la prima tappa dell’aumento di capitale condotta con una navigazione accorta, senza correre il rischio di naufragio. Tra poche settimane si saprà dove andrà a gettar l’àncora la banca che è anche l’azionista numero uno di Mediobanca, a sua volta egemone in Generali. E, non meno importante, in quale direzione si muoverà Vincent Bolloré, impiombato in una sorta di cul de sac in Mediaset.
Non è certo per caso, infine, che proprio ora sembra muoversi il fronte del Biscione. La famiglia Berlusconi sembra rassegnata al sacrificio di Premium che un anno fa si illudeva di poter collocare a un valore onirico tra le braccia di Bolloré e che probabilmente sarà invece aggiudica a Sky. Non sarà la sistemazione ideale perché Rupert Murdoch, l’unico compratore sulla piazza, non farà di sicuro follie per la pay tv di un Paese che stenta a crescere. Ma, in attesa di tempi migliori, tanto vale rafforzarsi in Mondadori (come sta avvenendo) e rafforzare il polo editoriale, libri-tv e carta stampata.
Mediaset, liberata dalla zavorra di 100 milioni abbondanti di perdite di Premium (e in attesa di chiudere, chissà, anche il conto con il Milan), avrà di fronte a sé un cammino sereno, se non spettacolare. Il pubblico pubblicitariamente più interessante (e ricco) confluirà sulla piattaforma pay di Murdoch oppure sull’offerta di Netflix. Con buona pace dell’illusione che Mediaset sia “un patrimonio nazionale” come la pasta e Sanremo.