Che cosa farà davvero Donald Trump è ancora un mistero, ma dai segnali che si riescono a decifrare, una cosa appare chiara: la nuova presidenza americana costerà cara all’Europa e all’Italia. Com’è emerso chiaramente venerdì dal vertice di Monaco, in primo luogo costerà circa un punto percentuale di prodotto lordo per avvicinarci a quella quota del 2% necessaria a finanziare la Nato. Ma il conto della spesa è ancora più lungo.
Sembra ormai chiaro che Donald Trump e Mike Pence hanno deciso di giocare al poliziotto cattivo e al poliziotto buono. Il presidente le spara grosse fin dal primo mattino quando con i suoi tweet minaccia mari e monti, al vicepresidente spetta il compito di mettere una pezza. È successo anche con il più grave scivolone della nuova amministrazione: la caduta di Michael Flynn nominato consigliere per la sicurezza nazionale, posizione fondamentale alla Casa Bianca. Trump era stato informato subito dopo il suo insediamento che il 29 dicembre Flynn aveva violato la legge (il Logan Act) discutendo con l’ambasciatore russo sul superamento delle sanzioni. Ma il presidente l’ha tenuto per sé, finché è toccato a Pence prendere il toro per le corna dicendo che Flynn, negando tutto, gli aveva mentito, quindi era venuto a cadere il necessario rapporto di fiducia.
Il ruolo del vicepresidente è apparso ancor più evidente proprio a Monaco, dove ha cercato di rassicurare gli alleati sulla continuità dell’impegno americano nella Nato e sul rapporto con l’Europa. Pence ha detto che il nemico numero uno oggi è l’Isis e tutti gli sforzi militari debbono concentrarsi nella sconfitta del Califfato. Sulla Russia è stato cauto, ha ribadito che “il presidente Trump cerca un nuovo terreno comune”, ma ha ammonito Putin a non esagerare in Ucraina, chiedendo il rispetto degli accordi di Minsk.
Anche a Monaco è emerso che l’interlocutore chiave resta la Germania. Tuttavia questa Amministrazione americana, a differenza dalle precedenti, non considera più Berlino un alleato affidabile. Le critiche di Trump ad Angela Merkel sui rifugiati nascondono una divaricazione di fondo su molti altri dossier strategici: la Russia, ovviamente, la globalizzazione, il rapporto con la Cina e il ruolo dell’Unione europea. Le parole al miele di Pence non traggano in inganno. Dalla nuova America arrivano messaggi senza troppe sfumature. Parlando alla tv greca, Ted Malloch, probabile prossimo ambasciatore Usa presso l’Ue è stato chiaro: “State perdendo tempo, che aspettate, lasciate l’euro e perché no l’intera Unione europea”, ha sentenziato, convinto che sarà Atene stessa a chiedere di uscire dall’Eurozona. Secondo Malloch, diversi economisti greci starebbero studiando il modo di lasciare l’euro per adottare il dollaro quale nuova moneta nazionale, compiendo un passo, che si tradurrebbe in una palese umiliazione per l’Ue e, in particolare, la Germania. Forse anche Malloch parla e sparla come il presidente, ma sotto il tanto fumo sollevato in questo primo mese c’è sicuramente un qualche arrosto.
Lo stesso vale per il protezionismo. Il trattato di libero scambio del Pacifico è saltato, il Nafta è in bilico, la stessa Organizzazione mondiale del commercio è a rischio. Trump non crede nella regolazione multilaterale degli scambi, vuole rapporti bilaterali basati sui rapporti di forza. Vedremo fin dove arriverà, ma il punto di partenza è proprio questo.
Difesa, moneta, commerci, tre punti chiave per regolare le relazioni internazionali, ma anche per determinare le linee guida di ogni singolo paese. In quale traiettoria si colloca l’Italia? A parte il maggiore impegno per la Nato sta prendendo corpo l’idea di una difesa comune europea. Ne ha parlato la cancelliera Merkel, anzi ne ha fatto uno dei terreni fondamentali per quella Europa a più velocità verso la quale ci si sta ormai muovendo. Naturalmente su tutto pendono le incognite elettorali. Ma se a maggio in Francia Marine Le Pen non arriverà a conquistare l’Eliseo, il processo si rimetterà in moto, dando per scontato che a settembre in Germania vincano gli europeisti (Merkel o Schulz da questo punto di vista non fa molta differenza). Ebbene, l’Italia dovrà decidere molto presto se vuol essere un partner attivo o se restare fuori dal club della difesa.
Sull’euro, sulle sue difficoltà, sull’esigenza di riformarne i meccanismi, conditio sine qua non della sua stessa sopravvivenza, è stato detto molto, anche troppo. Si è creata una cacofonia che nasconde il motivo conduttore. La cosa certa è che l’Italia resta sotto sorveglianza speciale. Con un debito così alto e crescente anche in termini assoluti e un prodotto lordo in sostanziale stagnazione non è in grado di stare al passo. L’Ue ha dato un altro mese per aggiustare i conti, tuttavia sembra giunto il momento di fare un tagliando complessivo. Altro che 3,4 miliardi di euro. L’Italia deve ridurre il debito, altrimenti non è in grado di restare nell’euro, ma paradossalmente nemmeno di uscirne: come verrebbero valutati dal mercato i titoli italiani, quelli pubblici e quelli privati, denominati in euro, con un eventuale ritorno alla lira, svalutata del 30-40%? Junk, spazzatura?
La marcia che sembra inarrestabile verso il neo-protezionismo è micidiale per l’economia italiana. Se il Paese non è crollato lo si deve esclusivamente alle esportazioni. L’Italia ha chiuso il 2016 con un avanzo commerciale pari a 51,6 miliardi di euro, un record storico. È vero che l’export fa appena un quinto del Pil, ma senza quel 20% dove staremmo? Siamo un Paese che importa tutto, dal grano al petrolio, dal latte all’acciaio. Una forsennata corsa verso dazi e barriere ci metterebbe in ginocchio.
Difesa, moneta e commerci richiedono scelte pesanti e rischiose, scelte che può fare solo un governo stabile, sostenuto da una maggioranza chiara e unita sulle direttrici di fondo che riguardano l’interesse nazionale e il posto del Paese nel mondo. Volgendosi attorno, leggendo i giornali e guardando la tv, sembra proprio che siamo lontani, siamo diecimila leghe sotto il mare.