C’è un cretinismo digitale dilagante che nasce, come tutti i cretinismi, dalla condizione umana, ma è concimato da precisi interessi finanziari, quelli di chi sta lucrando sulla diffusione delle nuove tecnologie e vuole continuare a lucrare indefinitamente sempre di più: è il cretinismo di coloro che negano l’evidenza, cioè che il nuovo salto che sta compiendo in questi mesi, in queste settimane, l’automazione industriale nei Paesi più industrializzati è, o sarà, “quantico” rispetto a quelli finora conosciuti.
In sostanza: chiunque neghi che i “cobot”, cioè i “cognitive robot”, che sono il cuore della quarta rivoluzione industriale – industry 4.0, in inglese – distruggeranno milioni e milioni di posti di lavoro tradizionali non solo nell’industria ma anche nei servizi senza crearne di nuovi, o è un cretino o mente per interesse. Ma attenzione: che questi posti di lavoro “saltino”, sostituiti da macchine in grado di agire e pensare, imparando su quel che fanno mentre lo fanno (proprio come gli uomini) è un bene assoluto per l’umanità. Significa ridurre il peso sull’uomo di quella che convenzionalmente si considera “maledizione biblica”, il lavoro come obbligo e non come libera scelta (“tu uomo lavorerai con gran sudore”). È un bene assoluto a una condizione, però: e cioè, ovviamente, che questi posti di lavoro cancellati dal progresso tecnologico non corrispondano ad altrettanti nuovi poveri che vaghino disperatamente ai margini della società, ma coincidano con forme nuove di redistribuzione del reddito che permettano a quante più persone possibile, compresi i nuovi disoccupati, di fruire dei vantaggi di questo reddito prodotto automaticamente dai “cobot”.
È chiaro? Dovrebbe esserlo, ma a fugare i dubbi interessati è, per fortuna, sceso in campo quel genio universale vero, nonché grand’uomo, che risponde al nome di Bill Gates. Fermiamoci un attimo e ricostruiamo. Chiarendo innanzitutto qual è il cuore della nuova rivoluzione industriale in atto, “quarta” nel senso che viene dopo la prima (l’era del motore, fine Ottocento), la seconda (l’era dell’elettricità, primi del Novecento), la terza (l’era del computer, gli ultimi cinquant’anni). Questa quarta rivoluzione unisce a una capacità di calcolo stratosferica ormai raggiunta dai computer la potenza di rilevazione dei dati raggiunta dai sensori, di tutti i generi; ottici, termici, acustici. Dati rilevati dall’ambiente con una precisione e un’acume che i sensi umani ignorano e che confluiscono in enormi memorie digitali, dotate appunto di quella capacità di calcolo stratosferica propria della cosiddetta intelligenza artificiale, connotata, cioè, dalla capacità di elaborare un proprio autonomo pensiero sui dati rilevati.
Il calcolatore elettronico come l’abbiamo conosciuto, e come Bill Gates ha contribuito in modo determinante a diffondere nel mondo con il suo straordinario sistema operativo di Microsoft, è un oggetto che riesce a elaborare dati immessi fisicamente da qualcuno nella sua memoria usando programmi che qualcun altro a sua volta ha caricato. Quindi ci vuole qualcuno che scriva i programmi, e qualcuno che carichi i dati.
Oggi i nuovi calcolatori ricevono a loro volta dalla mano e dalla mente dell’uomo i programmi con cui lavorare, ma sono programmi talmente evoluti – e i calcolatori a loro volta sono talmente potenti – che su quelle basi iniziano a creare nuovi pensieri, nuovi linguaggi, crescono in intelligenza sui dati che gli arrivano, senza bisogno di ulteriori interventi umani. E qui scatta l’altra discontinuità, che questi dati non gli arrivano perché qualcuno, umano, li carica ma perché affluiscono da sensori artificiali, automaticamente. Il circolo dell’automazione è perfetto, e genera pensiero. Siamo al “cobot”. Quindi il calcolatore classico, che eliminava braccia nelle funzioni materiali azionando braccia meccaniche al loro posto – ma non menti umane nelle funzioni di programmazione e “data entry” – oggi si è reso autonomo anche da queste ultime funzioni.
Due anni fa, a Davos – che non è un circolo post-comunista, ma il meeting annuale dei più potenti e ricchi capitalisti del mondo, il World Economic Forum – venne presentata la prima ricerca della storia a sancire che appunto non c’è un rischio ma una certezza del fatto che i “cobot” distruggono i lavori tradizionali in una misura tale da non essere compensabile e recuperabile, con la creazione, che pure ci sarà ma sarà marginale, di nuovi mestieri, naturalmente più qualificati ma proprio per questo assai meno “numerosi”.
Da allora, molte altre autorevolissime fonti – ultimamente, McKinsey – hanno asseverato questa prospettiva: il 45 per cento degli impieghi attualmente svolti dalle persone potrebbe essere automatizzato e circa il 60 per cento delle attività produttive potrebbe essere automatizzato almeno del 30 per cento. Queste previsioni continuano però a essere sistematicamente smentite da altre fonti, unicamente tendenti a presidiare il diritto di chi investa nei “cobot” di guadagnare di più risparmiando sul costo del lavoro umano (il cobot non mangia, lavora 24 ore al giorno, non va in pensione, eccetera).
Niente di strano, niente di nuovo: è la grande finanza, chiamiamola Big Money, che non si sazia mai e rivendica il diritto a guadagnare sempre, dissennatamente, di più. Perdendo il senso del reale, perché è chiaro che in un mondo dove produrre non costa niente in termini di costo del lavoro, e quindi pochissimi uomini vengono pagati per far funzionare fabbriche che producono tantissimo, non si vede proprio che mai avrà i soldi per acquistare tanta produzione …
Ebbene: sulle tesi di questi interessati ascari del capitale ha fatto irruzione adesso, col tono umile che distingue la grandezza, il genio di Bill Gates. Anche qui, fermiamoci un attimo. Bill Gates è l’icona del genio informatico. Con tutto il rispetto, a paragone Steve Jobs è un prestigiatore. Il primo ha inventato la ruota, il secondo l’ha dipinta di tutti i colori: vogliamo confrontarli? Ma c’è di più: Bill Gates ha creato un’azienda, ne è stato fino a pochi anni fa “chief software architect”, cioè il capo di chi pensava i programmi, si è poi fatto da parte, ritirandosi prima dei sessant’anni da tutte le funzioni direttive aziendali e lasciandola in mani forti, manageriali, capaci di gestirla senza di lui. Doppia genialità, quella di creare qualcosa che prescinda da sé, il vero gesto creativo dell’homo sapiens sapiens.
Ritirandosi a vita privata con 60 miliardi di dollari di patrimonio personale, Bill Gates e la moglie Belinda hanno deciso che per le esigenze loro e dei loro discendenti era più che sufficiente il 5% di quell’immensa ricchezza – tre miliardi di dollari: e scusate se è poco – e ha investito tutto il resto in una Fondazione benefica che sta finanziando progetti filantropici senza precedenti nella storia dell’umanità, senza peraltro il vizio intellettuale narcisista dei vari Jobs, appunto (“stay foolish, stay hungry!”, siate folli, siate affamati: una minaccia, più che un precetto!) o Zuckemberg, con il suo ultimo, paranoideo, manifesto del social-network monopolista più pericoloso della storia umana per la democrazia e il pluralismo. Nossignore: Bill Gates fa e non predica. Poi, un’intervista: in cui dice una cosa rivoluzionaria, lancia una proposta, anzi una super-provocazione, al cui confronto tutto il pensiero marxista del Novecento sembra una favoletta di Perrault. Dice: tassiamo i robot come se fossero lavoratori umani, e con il ricavato finanziamo il salario di cittadinanza a beneficio dei nuovi disoccupati. Una cosa enorme, che possiamo definire “di sinistra”, se amiamo la sinistra, ma che è in realtà semplicemente “umanista”.
Gates sostiene che se il lavoro fatto dalle macchine venisse tassato, si rallenterebbe virtuosamente il galoppo dell’automazione, le aziende dovrebbero accollarsi questi costi sociali, i governi ricaverebbero di che investire nel welfare e nella formazione dei nuovi lavori (quelli oggi non più finanziabili, dalle maestre d’infanzia ai bidelli agli infermieri alle badanti) di cui l’umanità ha estremo e crescente bisogno, e con forme di salario di cittadinanza si sosterrebbero i consumi, altrimenti destinati a crollare, facendo collassare nel loro crollo anche i fatturati delle stesse aziende automatizzate! Un pensiero, si vede subito, geniale e definitivo.
P.S.: Pochi giorni fa, i pigmei del Parlamento europeo di Strasburgo pur votando, opportunamente, una risoluzione che invita la Commissione europea a stabilire delle regole sui robot, tra cui la responsabilità civile in caso di incidenti, hanno detto no alla proposta di aggiungere nella risoluzione l’obbligo per le aziende che scelgono di automatizzarsi il pagamenti dei corsi di riconversione per i nuovi disoccupati. Una norma minima rispetto all’idea della tassa sui robot, ma pur sempre un’idea positiva, nella direzione giusta. Invece niente: “normiamo” i robot, ma non affrontiamo il loro vero effetto perverso, con un fariseismo che dimostra solo come una sede plurinazionale altissima – che è poi quella propria per emanare norme dall’impatto “sistemico” – cioè il Parlamento europeo, non annoveri al proprio interno nessuna mente lucida e visionaria come quella di Bill Gates.