Nella direzione Pd della settimana scorsa, Renzi e la minoranza del partito che si sta a lui contrapponendo si sono reciprocamente “rinfacciati” le scelte sbagliate fatte rispetto al settore delle telecomunicazioni in Italia. Renzi ha, ancora una volta, ricordato la sciagurata privatizzazione e il via libera all’Opa, lanciata su Telecom Italia dai cosiddetti “capitani coraggiosi”, operata dal Governo D’Alema [], mentre la minoranza Pd ha criticato il governo Renzi, che non ha lanciato nessun allarme quando Vivendi ha raggiunto il controllo azionario dell’ex-monopolista, circa un anno fa. Anzi, la reazione di Renzi alla scalata di Bolloré in Telecom Italia è stata di soddisfazione: “È la fine del capitalismo di relazione”.
Già Massimo Mucchetti, parlamentare del Pd e Presidente della commissione Industria del Senato, gli aveva, a suo tempo, risposto in un’intervista a Milano Finanza del 23 marzo 2016: “Il premier scopre la verità di Telecom Italia in ritardo: la resa della finanza italiana era già avvenuta nell’autunno 2013 quando Mediobanca, Generali e Intesa si dissero pronte a vendere a Telefonica, che non fu in grado di approfittarne. Bolloré ha fatto goal a porta vuota. In ogni caso, va detto che Telecom Italia è finita nelle mani del capitalismo di relazione francese, i cui esponenti hanno studiato tutti nelle stesse scuole, si conoscono e si sostengono l’un l’altro, prefetti di polizia o top manager che siano. D’altra parte, i gruppi finanziari francesi sono per lo più intrecciati fra loro”.
Riportiamo queste brevi battute per documentare come, nella vicenda Telecom Italia, la politica sia stata la grande assente, soprattutto in questo ultimo periodo. Molte domande andrebbero poste per cercare di capire come sia stato possibile lasciare andare alla deriva un “asset” strategico per il sistema-Paese, sia dal punto di vista dello sviluppo economico che della sicurezza nazionale.
Per tornare alle cronache, i dichiarati 265 trasferimenti, da Milano e Torino verso Roma, annunciati dall’azienda Tim a gennaio hanno trovato le decisa opposizione del sindacato e dei dipendenti. Risultano infatti del tutto risibili, le ragioni, che – a oggi – l’azienda ha dato nelle comunicazioni al sindacato e nelle dichiarazioni pubbliche fatte alla stampa. L’idea è quella di concentrare fisicamente alcune funzioni di staff, di tipo amministrativo, a Roma, per una maggiore “razionalizzazione” delle risorse e degli spazi.
In un’epoca in cui il trend generalizzato è quello dello smart working, del telelavoro, all’interno del quale proprio la stessa Tim offre dei servizi di questo genere alle imprese, risulta impossibile crederci. Purtroppo, questa è la maniera che l’azienda ha di perseguire il suo vero scopo, che è quello di “snellire”, ovvero, quando possibile, iniziare a ridurre il numero di dipendenti. È chiaro infatti, che proporre a un dipendente di trasferirsi a Roma, da Torino e Milano significa metterlo di fronte a un aut aut: accettare un trasferimento di questo genere (con tutte le difficoltà per le persone generalmente con famiglia e figli) o la prospettiva delle dimissioni, o magari, ma è solo un’ipotesi, del proprio demansionamento, da trattare da una posizione di estrema debolezza.
Il fatto è che l’attuale top management si sta muovendo all’interno di una prospettiva puramente finanziaria, seguendo le indicazioni di Vivendi, che ha bisogno di “razionalizzare” l’azienda, darle un’apparenza di maggiore efficienza, “sistemare” i conti, per arrivare a cederla. All’orizzonte di Tim rimane infatti Orange.
[1] “Nel ’99 il governo D’Alema – ministro dell’Industria Pierluigi Bersani, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Franco Bassanini – avalla – a dir poco, ma per molti versi promuove – la maxi-Opa (per l’epoca, la più ricca del mondo) da 100 mila miliardi di vecchie lire, 50 miliardi di euro, lanciata su Telecom Italia dalla cordata di Roberto Colaninno e Chicco Gnutti, sostenuti da Mediobanca.” Da un articolo di Zaccheo pubblicato su queste pagine.
Se questo è il quadro, la piccola novità è che però, almeno a livello locale, la politica ha avuto un sussulto di dignità e di responsabilità. Il sindacato infatti, sia a Torino che a Milano, sulla vertenza dei trasferimenti ha coinvolto le istituzioni locali, le due regioni Piemonte e Lombardia, e le risposte sono state tutt’altro che formali. In entrambi i casi, infatti, le istituzioni locali hanno detto esplicitamente che questi trasferimenti sono altamente opachi, senza ragioni chiare, e che rappresenterebbero soltanto un depauperamento per i rispettivi territori. Le due amministrazioni si stanno coordinando e hanno deciso di coinvolgere il Mise, il ministero dello Sviluppo economico. Si noti che il Piemonte è governato da una coalizione di centrosinistra, all’incontro a Torino era presente anche l’assessore al lavoro del comune di Torino, del M5S, e la Lombardia è governata da una coalizione di centrodestra.
Per quanto riguarda il Piemonte, nel comunicato della regione del 16 febbraio, si legge: Gli enti locali piemontesi, Regione Piemonte, Comune di Torino e di Grugliasco, chiedono a Tim di sospendere il trasferimento di 265 alte professionalità del gruppo dal capoluogo piemontese e lombardo a Roma. “Esprimiamo grande preoccupazione – dichiarano Pentenero, Sacco e Cuntrò – per una scelta di cui non risultano chiare le reali motivazioni e che appare in contraddizione con l’intenzione, confermata ancora oggi dall’azienda, di investire su Torino e il Piemonte”.
Per quanto riguarda la Lombardia, secondo quanto riporta Repubblica, la Regione si sarebbe dimostrata molto attenta alle esigenze dei lavoratori chiamati al trasferimento e avrebbe ironizzato anche sul fatto che, se si andasse al muro contro muro, l’ente presieduto da Roberto Maroni sarebbe pronto a disdire il contratto di fornitura telefonica.
Non senza qualche ragione, il commento di Pietro Foroni, presidente per la Lega della commissione Attività produttive della Regione: “L’articolo 41 della Costituzione sancisce che l’attività pubblica o privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali e un’azienda che trasferisce in blocco decine di dipendenti in una sede lontana rispetto a quella attuale ha un comportamento socialmente deprecabile. Anche se noi dipendiamo dalla Consip per gli appalti, possiamo anche svincolarci e indire una gara autonoma con paletti più stringenti, o attivarci affinché Consip faccia altrettanto”.
Insomma, a livello locale, c’è un soprassalto di responsabilità da parte delle istituzioni politiche. Lo stesso sindacato ne ha preso atto con soddisfazione ricordando come – fino a poco tempo fa – una posizione del genere sarebbe stata tutt’altro che scontata. Potrebbe essere questo un primo segnale di un’inversione di tendenza, da estendere anche a livello nazionale, perché la politica torni a considerare l’azienda Tim e i suoi dipendenti per quello che realmente rappresentano per l’intero sistema-Paese?