Quanto vale Alitalia? Per la Cai e i suoi azionisti – ovvero la società che controlla il 51% della compagnia e che fa capo a una compagine di soci italiani guidati da Banca Intesa – vale, paradossalmente, zero: a zero, cioè, hanno portato il “valore di carico” delle loro quote in Alitalia. Tristemente ma correttamente, perché il totale dei debiti a loro carico “pro-quota” (nel senso che un ulteriore 49% è a carico del maggior singolo azionista, Etihad) supera il valore patrimoniale di quella metà di azienda di loro proprietà. Significa che, virtualmente, se spuntasse un nuovo socio disposto ad accollarsi i debiti in carico a Cai, potrebbe prendersi quel 51% a zero euro. Ma un socio così non è all’orizzonte. Perché?



Perché oggi Alitalia ha cassa fino a marzo, perché brucia ben un milione al giorno. Poi va in default. Senza denaro fresco non sopravvive. Siamo al conto alla rovescia. Tranquilli: morire, non muore. Non se lo possono permettere i soci italiani, e tantomeno Etihad. Ma devono inventarsi qualcosa, e sanno che qualcosa si può fare. Ma cosa? Il piano industriale, supportato da una nuova operazione di sostegno finanziario verrà presentato agli azionisti mercoledì 1 marzo. Assorbirà almeno altri 500 milioni di euro. Ulteriori 300 milioni in obbligazioni, sottoscritte due anni fa dalle Assicurazioni Generali, verranno, pare, in qualche modo trasformate in capitale. Ma tutto questo come ultima spiaggia, se il piano non funzionasse, e soldi continuassero a essere bruciati, si prospetterebbe come unica soluzione l’amministrazione controllata.



C’è un nodo insuperabile che va sciolto, pena il fallimento: il costo del lavoro, fuori controllo rispetto alla concorrenza. A parità di esperienza, un pilota Alitalia intasca 10 mila euro netti al mese contro i 6.000 di uno RyanAir. E la maggior parte degli esperti ritiene che il personale di terra, nonostante i tagli varati nel 2014 di oltre 2.200 unità, sia ancora eccessivo rispetto al traffico gestito. Il dato di fondo, per restare sul fronte dei costi, è comunque che la concorrenza delle due grandi low-cost – cioè appunto RyanAir ed EasyJet – è ancora stellare, imbattibile, per Alitalia. Anche perché è imperniata su presupposti diversi. In RyanAir il personale viene assunto in regime di “somministrazione”, legale ma spartano. Prima di accedere allo stipendio pieno, passano diciotto mesi. Lo stipendio medio di un assistente di volo può arrivare a 42 mila euro, ma per una minoranza, e la media è inferiore a quella Alitalia di circa il 20%. Chi vuole andare oltre deve vendere tanto: pasti, oggetti della boutique, non ha requie, non si ferma mai.



Ma non basta. Quale “mission” aziendale ha oggi Alitalia, stante la sua flotta, i suoi scali e i suoi “slot”, cioè le rotte di cui dispone? È un ibrido: ha di tutto, breve, medio e lungo raggio, senza quelle connessioni internazionali che rendono veloce la “rotazione” degli aerei. In media, tra un volo e l’altro, un aereo RyanAir resta fermo in aeroporto 45 minuti. Il tempo di atterrare e già riparte. Questo intervallo per Alitalia è di quattro ore. 

Michael O’ Leary, il patron di RyanAir, ha provocatoriamente proposto alla compagnia italiana di trasformare in low-cost tutta la parte del corto e medio raggio, concentrandosi sul lungo raggio, ma è un modo come un altro per dire che occorre una nuova ristrutturazione sanguinosa. Certamente la mappa delle rotte gestite e del traffico intercettato lascia molto a desiderare. È come se da troppo tempo la compagnia non avesse una strategia commerciale degna di questo nome. E il futuro amministratore delegato, che l’azienda sta cercando visto che l’attuale – l’australiano Cramer Ball – è in uscita dovrà essere essenzialmente, e appunto, un esperto di vendite. Alitalia comunque filtra ben 25 milioni di clienti all’anno: tantissimi, a saperli valorizzare. Se ci fosse al vertice un mago del marketing.