Vediamo qualche numero su Alitalia. Innanzitutto bisogna smentire che la compagnia perda un milione di euro al giorno. Ne perde quasi uno e mezzo (500 nel 2016). È già costata ai contribuenti 8 miliardi di euro, per salvarla da successivi fallimenti, di cui si è ormai perduto il conto. I dipendenti che hanno perso il posto sono stati tutelati con un fondo speciale pagato da tutti i viaggiatori, anche delle compagnie concorrenti, per garantir loro un salario quasi pieno per sette anni. Ora gli addetti hanno scioperato per mantenere le condizioni (salari e produttività) che hanno contribuito a creare il presente ennesimo dissesto. Proteste legittime, ma forse non del tutto opportune, dato che generano ulteriori perdite all’azienda, non solo economiche ma anche di immagine, che forse in un settore aperto alla concorrenza sono ancora più gravi, e danneggiano anche viaggiatori “innocenti”.
È certo anche che le conseguenze del dissesto non le devono pagare tutte i lavoratori. Non di più né di meno però di quanto le paghino quelli di altre imprese che falliscono. O i lavoratori in condizioni economiche ben più disagiate, per esempio quelli che raccolgono i pomodori. Il problema è che proprio a causa dei tanti salvataggi precedenti i lavoratori (ma probabilmente anche parte del management) si aspettano un salvataggio ulteriore da parte dello Stato. Alcuni sindacalisti lo hanno esplicitamente dichiarato.
Ma davvero non si può continuare così. Alitalia è italiana ormai solo sulla carta. Non ha contenuti tecnologici tali da farne un “campione nazionale”: produce servizi aerei, e non certo di eccellenza o innovativi (come per esempio Ryanair). Non produce aeroplani. Ha solo il tricolore dipinto sulla coda, ma questo nazionalismo cromatico non ha più ragione di essere. Una compagnia nazionale che continua a fallire non costituisce nel mondo contemporaneo un gran “biglietto da visita” per il Paese.
Inoltre, se fallisse non scomparirebbe: gli investitori, italiani e arabi, perderebbero molti soldi, ma a prezzi stracciati qualcuno comprerebbe, come sempre accade, forse cambiando un po’ il nome, come è accaduto anche a Swissair, Sabena, e altre compagnie. I lavoratori che perdessero il posto poi starebbero molto meglio di altri anche con protezioni “normali”: il settore aereo è in espansione più rapida della media, non si tratta di professionalità “decotte”, come capita per esempio ai minatori del Sulcis o ad altre categorie.
L’eutanasia in questo caso sarebbe un atto pietoso, non tragico. Anche l’immagine dell’Italia ne guadagnerebbe nel contesto internazionale: Alitalia cesserebbe di essere un emblema patetico della nostra inefficienza.