“Qualcuno mi deve spiegare come si fa a dire no nello stesso tempo all’aumento delle tasse, alle privatizzazioni e alla procedura d’infrazione”. Carlo Calenda, ministro dello Sviluppo economico, parlando venerdì scorso al dibattito organizzato a Roma dal Foglio, ha presentato la sua equazione a tre incognite. Risolverla è impossibile, sarebbe come la quadratura del cerchio. E su questo ha ragione. Ma davvero sono solo tre le alternative in campo? Davvero non c’è un’altra strada da percorrere? Per Lorenzo Bini Smaghi c’è: intervenendo allo stesso dibattito si è detto convinto che sia possibile trovare i 3,4 miliardi e cominciare un percorso di riduzione sia pur piccola del debito pubblico senza nessuno sfracello, senza “macelleria sociale”, come si dice, e senza aumentare le imposte. Si tratta di agire dal lato della spesa, non solo tagliandola, ma riqualificandola. Essenziale diventa il fattore tempo. Il governo ha ottenuto una proroga di oltre un mese, tuttavia sarebbe un pessimo segnale se si riducesse di nuovo a una delle solite rincorse all’ultimo minuto, con accompagnamento di polemiche a Bruxelles e di propaganda demagogica in Italia.



Non c’è aria di elezioni a giugno ed è difficile vederle anche a settembre, molto probabilmente si arriverà alla fine della legislatura e a questo punto Paolo Gentiloni avrebbe un anno per sistemare alcune cose e per mettere in cantiere una manovra di politica economica coerente, persino ambiziosa. Deve dare, però, subito un segnale chiaro senza attendere e senza tergiversare. E senza finire ostaggio delle beghe interne al Pd.



Da quel che si capisce, al ministero dell’Economia contano di rosicchiare qualche centinaio di milioni grazie a una sia pur piccola accelerazione del prodotto lordo nominale, anche grazie all’uscita dalla deflazione. Se il prodotto reale aumenta oltre l’un per cento e la dinamica dei prezzi al consumo di qui a fine anno va anch’essa oltre il punto percentuale, ci si potrà avvicinare a quella quota tre per cento oltre la quale la riduzione del debito diventa realistica. A questa speranza statistica Pier Carlo Padoan aggiunge l’aumento delle entrate puntando sulle accise, sui giochi, su qualcun altro dei tanti balzelli imposti dal fisco. C’è chi ha fatto balenare anche un aumento dell’Iva, magari solo per le aliquote più basse, il che aiuterebbe l’inflazione a risalire, ma sarebbe impopolare soprattutto tra i ceti medi e offrirebbe il destro per una propaganda contro il governo affamatore, la nuova tassa sul macinato e via di questo passo. Senza contare il rischio di un impatto negativo sui consumi che restano ancora piatti.



In realtà, i margini d’intervento dal lato delle imposte sono molto ridotti e una manovra di aggiustamento tutta incentrata sulle entrate avrebbe un impatto economico, sociale e politico negativo. Padoan ha cercato di rilanciare le privatizzazioni per ridurre il debito, trovando un fuoco di sbarramento all’interno del Pd a cominciare dalla maggioranza renziana che, in vista del congresso, obbligata a non approfondire il fossato con la sinistra rimasta nel partito, s’è buttata anche lei in una rincorsa demagogica. Il ministro intende tenere duro, ma è improbabile che possa presentare proposte che abbiano qualche possibilità di andare in porto.

E la spending review? Mai amata da Renzi, morta e sepolta nell’ultimo anno, è difficile che possa essere riesumata. Non a caso Calenda non l’ha nemmeno menzionata. Si parla tutt’al più di qualche taglietto ai ministeri. Eppure è proprio sulla spesa che bisogna agire per evitare una manovra tutta tasse e per dare all’Unione europea un segnale positivo. Inutile negare che si è fatta strada la convinzione, non solo fuori d’Italia, che il 2016 sia stato l’anno in cui si è abbandonata la retta via per lanciarsi in un uso elettorale del bilancio pubblico. L’unico modo per recuperare margini di manovra e mettere a tacere i cerberi dei conti è dimostrare che nel 2017 si cambia decisamente passo. Nessuno quest’anno cavalcherà l’austerità come è successo in precedenza, nemmeno la Germania e lo si vede nei fatti, al di là delle chiacchiere da caffè. È una finestra aperta per il governo italiano, ma deve far pulizia nella politica delle mance e cominciare a ridurre la spesa pubblica corrente.

All’Unione europea e soprattutto agli italiani si può presentare una manovra il cui perno sia l’aumento degli investimenti pubblici finanziati non con le tasse, ma con la riduzione della spesa cosiddetta improduttiva, cioè l’assistenzialismo che non migliora i redditi dei cittadini, ma crea solo sacche di privilegio. Esistono grandi spazi di manovra checché se ne dica, senza toccare settori essenziali come la sanità. Esistono margini persino all’interno di un sistema pensionistico più volte riformato, ma che ancora resta una giungla. Esistono soprattutto in quella grande voce chiamata acquisti di beni e servizi che ancor oggi rappresenta la vera distribuzione di privilegi e prebende.

Nonostante anni di denunce e polemiche, la stessa siringa costa ancor oggi di più in Sicilia che in Lombardia. E un intervento a tappeto che sia nello stesso tempo risparmio e moralizzazione, ancora non è avvenuto. Il ministro dell’Economia lo sa e la Ragioneria dello Stato con tutti i suoi terminali locali, conosce bene dove e come mettere le mani. Ma spetta al governo dare il la e concedere la licenza di agire.