Non si può dire che in questa Italia moderna, “europea”, siano mancati e manchino i documenti di programmazione dell’economia complessiva e del bilancio pubblico in particolare. Non è questo che ci spinge a voler ricordare il passato. La creatività in materia, negli ultimi venti anni, è stata persino eccessiva. Tra i documenti recenti, ma non più in vigore, possiamo citare la legge di stabilità, la decisione di finanza pubblica, il programma nazionale di riforma, il programma di stabilità, la relazione sull’economia e la finanza pubblica, la relazione unificata di economia e finanza e altri. Tra quelli rimasti in vigore (oggi, 2017) campeggia ovviamente il Documento di economia e finanza o Def (con relativi aggiornamenti) e gli fanno da corona il Documento programmatico di bilancio (Dpb), nonché la Legge di bilancio e il Rendiconto generale dello Stato.
Questo scritto intende ricordare ai giovani che il Def 2017 vedrà la luce esattamente 50 anni dopo l’approvazione -sotto forma di legge da parte del Parlamento italiano, avvenuta appunto nel 1967: un unicum nel quarantennio post-1950 di quel documento di programmazione quinquennale che andò sotto il nome di Programma economico nazionale 1966-70 (d’ora in avanti Pen).
Esattamente come il Def rappresenta un po’ la sintesi di molti dei documenti precedentemente in vigore (vedi Legge di stabilità, ecc.), il Pen 1966-70 giungeva alla fine di un iter cominciato con il cosiddetto Piano Vanoni (1955-1964), proseguito con la famosa “Nota aggiuntiva” di La Malfa del 1962 e con il “Rapporto Saraceno”, che conteneva stime delle grandezze macroeconomiche per il periodo 1963-1973, e che costituiva una sorta di rassegna circa gli orientamenti, le esigenze e i costi di una politica di rinnovamento economico-sociale. Una rassegna preziosa che fece da base per il Piano 1964-69 voluto dai ministri Giolitti e Pieraccini, pur senza giungere alla consacrazione parlamentare come avvenne due anni dopo con il Pen 1966-70.
Gli aspetti che distinguono il Pen del 1967 dai sofisticati documenti economici di oggi, quale il Def, sono due: i) l’ambizione, la nobiltà, al limite dell’ingenuità, dei targets (“finalità”, nel corretto italiano del documento) perseguiti; ii) la ben più ridotta presenza di quella ossessione odierna che è l’equilibrio dei conti pubblici. Quanto al primo punto, il Pen intendeva superare gli “squilibri settoriali, territoriali e sociali … mediante una politica costantemente rivolta alla piena occupazione e alla più alta ed umana (sic!) valorizzazione delle forze di lavoro, che costituisce impegno permanente della programmazione”. Si proponevano a tal fine: a) il superamento delle lacune in fatto di dotazioni e servizi di primario interesse sociale, tra cui scuola, abitazione, sanità, sicurezza sociale, formazione professionale, trasporti, ecc.; b) il raggiungimento di una sostanziale parità fra la remunerazione del lavoro in agricoltura e nelle attività extra-agricole (evidentemente l’Italia del miracolo industriale primi anni ’60 aveva lasciato ai margini l’agricoltura…); c) l’eliminazione del divario tra zone arretrate, con particolare riguardo al Mezzogiorno, e zone avanzate. Si invocava pertanto uno sforzo per garantire “un più alto livello di vita per tutti i cittadini, un più elevato grado di civiltà (corsivo di chi scrive), il superamento degli squilibri più profondi…”.
Circa il secondo punto, occorreva giungere all’ultimo capitolo (il Cap. 23) per rintracciare nel Pen un riferimento al ruolo della finanza pubblica: la quale – vi si dice – dovrà essere in grado “di far fronte alla spese correnti e a quelle in conto capitale in modo strutturalmente equilibrato e tale da non implicare tensioni incompatibili con la stabilità monetaria”. Ogni confronto con le decine di pagine dedicate al tema della finanza pubblica negli ultimi Def è del tutto improponibile!
L’estrinsecazione delle menzionate “finalità” sociali in un documento eminentemente tecnico quale pur si caratterizzava il Pen 1966-70 era chiaramente riconducibile alla necessità di rappresentare le istanze politiche di quella parte della sinistra politica italiana di allora (socialisti e socialdemocratici) che da circa tre anni sedeva al governo insieme con la Democrazia cristiana e il Partito repubblicano: ovvero gli anni in cui erano state fissate le fondamenta del Programma stesso (vedi “Nota aggiuntiva” e “Rapporto Saraceno” in primis).
Che quel mondo fosse ben diverso dall’attuale lo dicono anche le cifre chiamate in causa: si puntava su una riduzione dell’emigrazione nel 1970 fino a quota max 300.000 (gli emigrati italiani negli anni precedenti erano milioni) e a una riduzione della disoccupazione, sempre nel 1970, “ad un livello non eccedente il 2,8-2,9% (!!) della complessiva forza di lavoro”, con l’occupazione in crescita di 800.000 unità nel quinquennio considerato. Il tutto portava a una previsione di crescita del reddito nazionale (nel documento non viene mai usata la parola Pil!) oggi impensabile se non in Cina: il 5% in media all’anno, ottenuto come somma di un 2,8-2,9% afferente l’agricoltura e un 5,5% afferente i settori extra-agricoli.
Chi scrive ebbe l’onore di redigere un primo commento al Pen poche settimane dopo che era stato pubblicato, in un volume divulgativo dove lo si elogiava per il suo ruolo innovativo e ambizioso, che ci poneva al fianco, se non in testa, dell’Europa più avanzata. Ma, appunto, si trattava di un’Italia ottimista di altri tempi!