Assicurazioni Generali, Intesa Sanpaolo, Unicredit e Mediobanca: e adesso? Nelle ultime quattro settimane il quadro della cosiddetta “alta finanza” italiana si è scomposto e ricomposto precipitosamente, e senza sostanziali modifiche allo “status quo ante”. Eppure… Riepiloghiamo. Intesa Sanpaolo ha provato a scalare le Generali, che si sono difese acquisendone il 3,3% del capitale, senza riuscire a convincere il mercato della buona qualità della sua strategia, e ha finito col rinunciare al deal, che peraltro non aveva mai indicato come deciso, ma sempre e solo allo studio.



Unicredit è riuscita a concludere un’aumento di capitale da 13 miliardi di euro, una trasfusione monstre di quattrini, messi dal mercato finanziario a innegabile dimostrazione del fatto che c’è fiducia nei confronti della capacità dell’amministratore delegato Jean-Pierre Mustier di gestire l’azienda e le sue strategie future. Le Assicurazioni Generali sono rimaste, né più né meno di prima, nel loro limbo. Da una parte, un lignaggio, un patrimonio finanziario ma anche di brand e competenze che hanno poco confronti nel mondo. Dall’altra, una lentezza, un tradizionalismo, un torpore anacronistici e, soprattutto, un azionariato che ha tutti gli inconvenienti delle public-company e tutti quelli delle aziende padronali. C’è, infatti, un gruppetto di azionisti di riferimento, primo fra tutti Mediobanca, ma anche Caltagirone, Del Vecchio e De Agostini, che reclamano diritti e fustigano il management per ottenere i risultati che desiderano, come se fossero davvero i padroni; salvo poi non essere neanche lontanamente strutturati per difendere da eventuali scalate veramente ostili la stabilità dell’azienda, diversamente da quel che farebbero dei padroni “veri”. Non a caso, ieri il titolo della compagnia, nella prima seduta borsistica dopo la notizia della rinuncia alla scalata da parte di Intesa, ha perso il 2,84%. Mentre quello di Intesa è salito del 5,49%, a dimostrazione del fatto che il mercato ha apprezzato la rottura del fidanzamento.



In disparte, Unicredit, ristorato dai 13 miliardi di nuovi capitali incassati, che sembrerebbero ormai aver risolto il problema dei buchi causati dalle sofferenze su crediti. Già: quanto “in disparte”? Le cronache – più politiche che finanziarie, in verità – hanno riferito che Mustier avrebbe garantito al Governo italiano il presidio dell’italianità delle Generali, di cui Mediobanca è – come abbiamo ricordato – il maggior singolo azionista, essendo a sua volta controllata appunto da Unicredit.

Fin qui i fatti, arricchiti già, peraltro, da qualche non piccolo condimento indimostrato. Una prima sintesi. Per Intesa non cambia nulla, era e resta una banca sana e credibile, e l’applauso del mercato lo conferma. Certo, il capo-azienda Carlo Messina ha attraversato momenti migliori, perché a molti è sembrato un po’ donchisciottesco nel suo enunciato espansionista su Trieste. Ma gli basterà poco per riprendersi, gli basterà comprare appena possibile qualcos’altro, e gli servirà di lezione per non fidarsi mai più della politica – tantomeno di certi politici fiorentini – che tendono a usare chiunque come un taxi, senza nemmeno pagare il tassametro. Perché senza un fervore ideale da “civil servant”, difficilmente Messina si sarebbe lanciato in una scalata al buio, esponendosi al rischio di quella “soffiata”, quella “fuga di notizie” che ha segnato l’inizio della fine del progetto.



Le Generali: erano, e restano, in cerca d’autore. A guida francese, come del resto Unicredit. Appetibili per la francese Axa, ma in fondo anche per tutti gli altri colossi assicurativi del mondo, perché Trieste con i suoi 22 miliardi di capitalizzazione e con quei soci gracili che si ritrova a cassetta è un bocconcino per chiunque faccia sul serio. Peccato, perché Generali ha in pancia 450 miliardi di euro di risparmio gestito, più della metà italiano, metà della metà investiti in titoli di Stato, che sono asset del nostro Paese.

Infine, Unicredit. Detto che Mustier è stato bravo; detto che la banca ha saputo presentarsi come si deve al mercato, al punto da prendere i soldi necessari. Qualche domanda – diciamolo – resta aperta. Possibile che nell’azionariato non si manifesti presto o tardi nessun “anchor investor” che abbia garantito sostanzialmente il buon esito della raccolta? Si sa che le due Fondazioni bancarie che capeggiavano l’azionariato italiano (Verona e Torino) si sono ridotte al 4,5% complessivo dal 6,8% che avevano. Non contano più niente, in sostanza. Si sa che i soci esteri noti – Capital Research (al 6,7% del capitale) e il fondo di Abu Dhabi, Aabar (al 5,04%) – hanno sottoscritto. Molti osservatori finanziari pensano che la francese Société Générale abbia rastrellato o fatto rastrellare quote, durante le ricapitalizzazione. Si vedrà.

Certo è che passare il testimone della tutela dell’italianità dai francesi della Lazard Freres, con il mitico e non rimpianto presidente triestino Antoine Bernheim, al francese Jean-Pierre Mustier, al francese Philippe Donnet, al colosso bancario francese SG, fa veramente ridere. Ma questo non è un problema né di Unicredit, né di Mustier, né di Donnet: fanno i loro interessi. È un problema nazionale, ma nessuno oggi è nella posizione di occuparsene.