Giovedì prossimo, dunque, il presidente della Bce Mario Draghi sarà ricevuto a Berlino dal cancelliere tedesco Angela Merkel. Un “incontro”, ha detto un portavoce del governo tedesco. Verosimilmente un invito, utile a un confronto su “tematiche d’attualità dell’eurozona”: un linguaggio vago e felpato al massimo, per annunciare un vertice che, in linea di principio, un premier non dovrebbe mai indire, né un banchiere centrale accettare. Il presidente della Bce – come quello della Fed – è designato sì dai “capi di governo”, ma dall’istante dopo è chiamato a pilotare la sua moneta con totale indipendenza: come un “pilota automatico”, secondo una celebre espressione di Guido Carli, governatore della Banca d’Italia e pioniere dell’unione monetaria europea.



Non è un caso che di faccia a faccia non protocollari fra Draghi e capi di governo dell’eurozona se ne contino pochissimi. Uno – rimasto agli annali – avvenne nel giugno 2015, mano a mano che la crisi finanziaria della Grecia si aggravava e con essa le fratture in Germania e in Europa sul salvataggio. Una sera in cancelleria Merkel riunì il presidente francese François Hollande, il capo della commissione Ue, Jean Claude Juncker, il direttore generale del Fmi, Christine Lagarde, e Draghi. Non ne è noto lo svolgimento, ma non fu evidentemente produttivo: nelle settimane che seguirono la tragicommedia greca non si fece mancare nulla, a cominciare dal referendum di Atene contro l’austerity imposta dall’Ue. L’epilogo, a metà luglio, giunse con un summit-maratona risolto personalmente da Merkel con il leader di Atene Alexis Tsipras, con Hollande nel ruolo di testimone notarile. Non prima, comunque, di un clamoroso scontro fra Draghi e il super-falco tedesco Wolfgang Schauble.



Nel febbraio 2017 Merkel incontrerà Draghi prevedibilmente vis-à-vis. La Reuters, non scorrettamente, ha collegato il vertice alla sortita del neo-presidente americano Donald Trump su una presunta guerra valutaria in corso da parte dell’eurozona verso gli Usa (lamentandosi però in modo specifico della Germania, come la Cina in maxi-surplus commerciale). Nei giorni scorsi, tuttavia, la cronaca europea è stata scossa da un’altra notizia: la candidatura di Martin Schultz come sfidante della stessa Merkel alle elezioni politiche di settembre. Una discesa in campo, quella dell’ex presidente socialista dell’euro-parlamento, che è subito stata accolta con molto favore dai primi sondaggi interni: Schultz sarebbe infatti, oggi, in netto vantaggio sulla tre-volte-cancelliera. Che infatti ieri ha subito reagito, evocando “un’Europa a due velocità” (anzitutto monetarie).



Entrambi le situazioni sembrano giustificare la “convocazione” di Draghi.  Da un lato ciò che tiene l’euro “svalutato” nei confronti del dollaro (come denuncia Trump) è la politica monetaria espansiva – il Quantitative easing dell’euro – che Draghi ha di fatto confermato per l’intero 2017, nonostante la costante opposizione della Bundesbank e dell’ala dura della Cdu nella coalizione di governo in Germania. Per 80 milioni di tedeschi i “tassi zero” innervano la stessa minaccia dell’inflazione fuori controllo: l’instabilità portata dalla phoney money, dal denaro finto, falsificato da pòlitiche economiche scorrette.

Più prosaicamente, in un sistema-Paese economicamente sano come la Germania, è più percepibile il danno arrecato dai mancati rendimenti ai risparmiatori (in particolare i loro fondi previdenziali) che il beneficio al collocamento di titoli di debito pubblico e privato. Sono invece i paesi deboli dell’eurozona (fra questi l’Italia) a godere sul versante del debito pubblico del Qe praticato da Draghi fin dal inzio 2016 per stimolare la ripresa ancora debole in molte aree europee. Ed è su questo fronte che Schulz ha già ingaggiato battaglia elettorale: criticando il rigorismo acritico della Cdu e rilanciando lo sviluppismo come discorso economico della sinistra europea, occhieggando alla Francia di Macron e all’Italia di Renzi. Un discorso naturalmente dialettico con le chiusure protezioniste e anti-europee “à la Trump” verso cui sembrano convergere i populismi all’offensiva ovunque nel Vecchio Continente.

Draghi, infine, ultimamente non perde occasione per ricordare che un Paese membro dell’eurozona può in realtà uscirne, ma solo dopo aver saldato il suo debito con il sistema dei pagamenti target 2 (per l’Italia sarebbero oltre 300 miliardi di euro). In concreto: la prospettiva appare impraticabile sia per un governo “populista” che decidesse l’exit, ma anche per un’ipotetica decisione “ultra-rigorista” dell’Eurogruppo e dei suoi Paesi forti di sospendere/espellere un Paese debole dall’eurozona (da valutare l’opzione sempre molto gettonata di un’uscita singola della Germania “verso l’alto”).

Certo non sarà solo Merkel a coinvolgerer Draghi nel suo tentativo di quadratura di molti cerchi politico-economici: si tratti di aggiustare la confrontation Ue-Usa, o si tratti di vincere le elezioni tedesche. Anche il presidente della Bce sa bene di non essere un “pilota automatico” all’ultimo piano dell’Eurotower di Francoforte, mentre Alternative Fur Deutschland è all’attacco nelle vie attorno. Sa che i no ripetuti della Bundesbank e di altre banche centrali del Nord Europa nel consiglio Bce non possono essere retti all’infinito. Osserva per primo l’aumento della pressione di Bruxelles sui conti pubblici italiani. Sa anche che l’effetto-Trump ricomprenderà atteggiamenti via via più ruvidi verso la Fed e quindi meno possibilità di gioco di squadra fra le due banche centrali affacciate sull’Atlantico. Sa infine che le tornate elettorali del 2017 segneranno anche l’inizio del lungo processo di selezione del suo successore al vertice Bce.