Mi permetterete una digressione politica iniziale prima di entrare nel merito economico dell’articolo. Da giovedì pomeriggio questo Paese è focalizzato su un unico argomento: Virginia Raggi, l’interrogatorio dei magistrati e il mistero della polizza assicurativa. Ora, non entro nel merito della vicenda (non è la mia materia), ma noto due cose. Primo, dietro questa storia deve esserci davvero qualcosa di grosso, perché la sindaca di Roma è rimasta davanti agli inquirenti oltre sette ore: Adolf Hitler ha passato meno tempo nel Führerbunker di Berlino. Secondo, in contemporanea con le prime fasi dell’interrogatorio della Raggi, quando miracolosamente Espresso e Fatto quotidiano pubblicavano alla stessa ora la notizia della polizza misteriosa, al Senato si teneva il question time durante il quale il ministro delle Finanze, Pier Carlo Padoan, rispondeva all’aula rispetto alla richiesta di correzione dei conti giunta all’Italia da parte della Commissione Ue. Sapete quanto senatori erano presenti, a fronte della trattazione di un argomento di vitale importanza per il Paese? Dodici. Perché si sa, la vita delle Camere inizia il martedì all’ora di pranzo e finisce nel primo pomeriggio del giovedì, quando parte l’assalto dei trolley verso Fiumicino o Termini per tornare a casa. Volesse mai il cielo che lavorassero troppo e rischiassero un infarto.
Perché questa premessa? Per dirvi che siano dentro all’ennesima pantomima. Il caso Raggi è un non caso, ma garantisce una straordinaria cortina fumogena per coprire altro: in primis, un Pd sull’orlo della scissione e con un Matteo Renzi mai così solo e debole. In seconda istanza, un centrodestra che non esiste più, diviso tra centro (Forza Italia, Ncd e altri) e destra (Lega Nord e Fratelli d’Italia) e quindi destinato all’irrilevanza o alla grossa coalizione. In mezzo, il governo e il Quirinale che cercano disperatamente un modo per tirare a campare fino a fine legislatura ed evitare il voto anticipato. Il rischio? Per i politici autoproclamatisi responsabili, l’instabilità dei mercati che andrebbe a colpire i conti pubblici. A testimoniarlo, lo spread in rialzo.
Ora, va bene tutto, ma non facciamoci prendere in giro. Per due motivi. Il primo è che l’insipienza di questa posizione è rappresentata plasticamente dalla prova di incoerenza offertaci da uno dei paladini della lotta contro l’uso politico del differenziale di rendimento tra Btp e Bund, Renato Brunetta. Il quale ha scritto addirittura un pamphlet sul “golpe” finanziario che nel 2011 portò alla fine del governo Berlusconi, di fatto dimostrando come quel misuratore sia deformabile e manipolabile alla bisogna per scopi politici, mentre oggi adduce proprio l’aumento dello spread come motivo per non andare al voto, perché il mercato si innervosirebbe. Signori, all’epoca lo spread toccò 575 punti base, oggi siamo a 180. Secondo motivo, strettamente connesso: sbandierare lo spread in aumento come deterrente per evitare le urne è patetico, quando si vive come stiamo facendo in un regime di Qe: nessuno, in questo momento, andrebbe frontale contro Mario Draghi per speculare sull’Italia.
Volete la riprova di questo? Non più tardi che nell’articolo di ieri vi dicevo che le Banche centrali stanno attrezzandosi per combattere l’offensiva valutaria e commerciale di Donald Trump, quelle cinese e giapponese in testa. Bene, ieri mattina entrambe le Banche centrali di quei Paesi sono intervenute. Per tamponare l’aumento dei rendimenti del bond a 10 anni e del cambio dello yen, la Bank of Japan ha cominciato ad acquistare una quantità illimitata di obbligazioni a tasso fisso in un’operazione non programmata. Nel frattempo, in Cina, nel primo giorni di riapertura dopo le festività del nuovo anno (di cui vi ho parlato la scorsa settimana), gli swap sui tassi d’interesse a un anno sono saliti al livello più alto da inizio 2017 (fino a 12 punti base al 3,43%, ai massimi dal 28 dicembre) in seguito all’aumento dei tassi da parte della Banca centrale attraverso operazioni di mercato aperto, un altro passo per dare una stretta alla politica monetaria. In questo modo, la Banca centrale cinese ha alzato i tassi di interesse per la prima volta dal 2013 aumentando così i pronti contro termine a 7, 14 e 28 giorni di 10 punti base portandoli rispettivamente al 2,35%, al 2,5% e al 2,65%. Per i primi due si tratta del primo aumento dal 2013, mentre per quelli a 28 giorni è la prima stretta dal 2015. Sale troppo un rendimento? Compro di più. Finché l’onnipotenza dei banchieri centrali non verrà messa in discussione seriamente o dalla politica o dalle risorgenti forze reali di mercato (e solo l’esplosione di una bolla può permetterlo), lo spread sarà un misuratore inutile. Una farsa.
Vogliamo parlare della manovra che il governo intende mettere in atto per obbedire ai desiderata Ue sull’eccesso di deficit? L’ha illustrata Padoan di fronte all’aula vuota di palazzo Madama: l’aggiustamento dei conti pubblici richiesto all’Italia da Bruxelles non porterà a un inasprimento dell’Iva. Il governo punta infatti a ottenere un miliardo di euro di maggiori entrate con misure anti-evasione già sperimentate, mentre sono esclusi interventi sull’aliquota Iva, sulle agevolazioni fiscali e ulteriori finestre di voluntary disclosure. Insomma, cosa farà il governo? Quello che hanno sempre fatto tutti i governi italiani: ritocchi sulla tassazione indiretta e sulle accise, quindi tabacco, alcolici e benzina più care. Che creatività. Ma perché allora tanta paura? «L’ipotesi di procedura di infrazione è estremamente allarmante, comporterebbe una riduzione di sovranità nella politica economica e costi ben superiori per la finanza pubblica del Paese a seguito del probabile aumento dei tassi di interesse», ha avvertito ancora il ministro dell’Economia. Tradotto: multe fino a 8,5 miliardi e potenziale blocco dei fondi Ue. Succederà?
A sentire Pierre Moscovici, no, poiché l’obiettivo Eurogruppo è di evitare le procedure: «È da cinque anni che sono all’Eurogruppo, prima come ministro e poi come commissario, e posso dire che il suo obiettivo è evitare procedure, non aprirle». Ed ecco il dato reale, la cartina di tornasole che ci mostra plasticamente di cosa stiamo parlando: nel corso del question time, infatti, Padoan ha dato anche una scadenza temporale a questa simil-manovra correttiva. «Le misure verranno adottate al più tardi entro fine aprile, presumibilmente anche prima della presentazione del Def, ha dichiarato. Accidenti che urgenza, che gravità enorme! Se non ricordo male, quando arrivò la famosa lettera della Bce al governo Berlusconi si intervenì nell’arco di giorni, poche settimane: qui ci prendiamo tempo circa tre mesi. Non dev’essere così arrabbiata e pressante la Commissione Ue, allora, che ne dite?
Tanto più che, se volessimo essere seri, ci diremmo in faccia che uno 0,2% è niente rispetto ai deficit strutturali di Francia e Spagna, ormai storici. La Commissione fa la faccia cattiva, fa sapere ai giornali che nella lettera partita tre giorni fa da Roma «si aspettava maggiori dettagli», ma alla fine abbozza, perché fa parte della sciarada. Anzi, ne è protagonista e regista. Perché non dire chiaramente che Bruxelles ha prima fatto campagna elettorale per il “Sì” al referendum voluto da Matteo Renzi, garantendo flessibilità per mance e prebende elettorali e ora, invece, dopo la tranvata delle nuove politiche messe in campo da Trump, sta operando affinché il governo Gentiloni resti in carica fino alla fine della legislatura, come chiesto da uno degli uomini più vicini ai desiderata di Bruxelles, l’ex presidente Giorgio Napolitano?
D’altronde, chi vorrebbe arrivare a uno scontro con Bruxelles in primavera, proprio quando l’Italia ospiterà il G7? E poi, stranamente, non vi pare un po’ sospetto come, di colpo, l’Europa abbia preso coscienza del problema dell’immigrazione, con Donald Tusk che benedice l’accordo italiano con il governo libico di Serraj per chiudere la tratta mediterranea dei traffici? Non è che l’ultimo sondaggio giunto dalla Francia ha fatto drizzare le antenne a tutti, visto che tra marzo e settembre si voterà in Olanda, Francia e Germania? Ma vi sembra serio tutto questo can can per un aggiustamento pari allo 0,2% del Pil, quando abbiamo un debito pubblico al 132% del Pil? Serve la manovrina che mi farà pagare le sigarette 10 centesimi in più al pacchetto per rimettere magicamente in carreggiata quello che a Bruxelles chiamano pomposamente «percorso di aggiustamento delle dinamiche dei conti pubblici»?
Ripeto, l’Ue ha minacciato per mesi Spagna e Portogallo di aprire una procedura d’infrazione e, stranamente, il mese scorso tutto è stato abbuonato e sistemato, addirittura Dbrs ha garantito l’investment grade a Lisbona per garantire l’eligibilità del suo debito pubblico in seno agli acquisti del Qe: solo un buffetto e tante raccomandazioni. Signori, siamo a uno snodo epocale per la tenuta stessa dell’eurozona, qui la questione è sopravvivere, non abbassare il deficit frazionalmente: Bruxelles sta, malamente, menando le danze per tamponare il fall-out combinato di aumento del consenso per i partiti cosiddetti “populisti”, fratture in seno alla Bce ed effetto destabilizzatore di Donald Trump. In questo momento, ai manovratori serve un’Italia che fa i compiti e che, soprattutto, non si azzardi ad andare al voto anticipato quest’anno, rendendo il calendario politico dell’Unione un incubo ingestibile.
Tutto qui. Non fatevi prendere in giro, è una pantomima. Pericolosa, certo, ma non più di quelle che abbiamo vissuto, con scadenze pressoché fisse, fino ad adesso.