Distratti dall’accordo con la Libia per limitare i flussi migratori (incrociamo le dita vista anche la debolezza del governo Serraj), rischiamo di sottovalutare il messaggio principale uscito dal vertice di Malta: l’Europa a più velocità. Non è una novità, è previsto dai Trattati e in qualche modo già esiste con l’euro. Ma la Germania vuole che venga formalizzata una Unione ad architettura flessibile per consentire ai paesi che possono di andare avanti nell’integrazione, lasciando gli altri nel secondo o terzo livello. Angela Merkel desidera che tutto sia pronto per il 25 marzo, quando si festeggerà nella capitale d’Italia il 60esimo anniversario del Trattato di Roma.
Le ricadute più importanti saranno sull’euro e sulla difesa. Nel primo caso, un nocciolo duro rappresentato dai paesi con i conti pubblici in equilibrio potrebbe obbligare gli altri a scelte drastiche se vogliono rimanere dentro la moneta unica. Nel secondo caso si tratta di dare il via alla difesa comune, ancor più importante ora che l’amministrazione Trump sembra disimpegnarsi persino dalla Nato.
Quando era ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni ha parlato a favore di un’Ue a cerchi concentrici e anche in Italia gli addetti ai dossier europei si stanno preparando all’appuntamento. Ora che è capo del governo, Gentiloni dovrebbe prendere di petto la questione, proporre una linea chiara, aprire un dibattito politico, presentarsi in Parlamento e chiedere un voto. Gli euroscettici coglieranno l’occasione al volo per una sorta di “liberi tutti”, preparando l’Italexit; mentre gli europeisti si batteranno per restare nel gruppo di testa. Ma la vera questione è: abbiamo i requisiti per non scendere in serie B? Certo, l’Italia è un Paese fondatore e farà valere il blasone e la storia. L’Unione di oggi, però è diversa: dopo la Brexit e dopo la svolta neo-nazionalista negli Stati Uniti, non conta il lustro del passato, ma la forza del presente per costruire il futuro. E qui Roma non ha molti numeri da far valere.
La querelle sulla manovra correttiva alimenta la convinzione che non riusciamo a superare gli antichi vizi. Il pregiudizio così diventa realtà. È vero, lo sforamento del deficit riguarda appena lo 0,2% del prodotto lordo, quindi in apparenza è una tempesta in un bicchier d’acqua. Ma i cerberi del rigore vogliono sapere che fine hanno fatto i 19 miliardi ottenuti lo scorso anno grazie alla flessibilità. Mentre a Francoforte la Bce si chiede come mai i 90 miliardi risparmiati in tre anni sul servizio del debito non sono andati a ridurre lo stock di titoli di stato emessi per finanziare il disavanzo dello stato. Sono domande da fanatici dell’austerità? Non sembra proprio.
La politica monetaria iper-espansiva va contro l’ortodossia austro-germanica, mentre la stessa Ue ha accettato che l’Italia faccia deficit spending non una tantum, ma per tre anni consecutivi. Il ministro dell’Economia sostiene che comunque è riuscito a tenere il disavanzo entro il tetto del 3%, ma è anche vero che l’Italia, a differenza da altri paesi, non è in grado di subire una procedura d’infrazione che getterebbe di nuovo l’allarme sui mercati. La Francia è stata in questi anni ben più spendacciona e meno virtuosa, tuttavia il suo debito pubblico ha ancora voti altissimi, quello italiano è al limite della bocciatura.
La preoccupazione sulla tenuta del Paese è aumentata con la crisi delle banche e il salvataggio pubblico del Monte dei Paschi ha aperto il vaso di pandora. I 20 miliardi di euro messi a disposizione dal governo rischiano di non bastare se scatta una reazione a catena (le banche venete, la cassa di risparmio genovese e chissà quant’altra polvere sta uscendo da sotto i tappeti). Non è affatto garantito, tra l’altro, che vada liscia l’operazione Mps: l’Unione europea ha già alzato il dito sulla garanzia pubblica nei confronti dei risparmiatori da rimborsare. Mentre i 13 miliardi che Unicredit deve raccogliere sul mercato sollevano interrogativi sulla prima banca italiana, l’unica considerata sistemica, cioè tra quelle troppo grandi per fallire.
Tutto questo mentre mancano due requisiti fondamentali perché l’Italia riesca a tenere la rotta: il primo è la crescita, il secondo è il governo. Anche Padoan è costretto ad ammettere che il prodotto lordo non aumenterà come previsto (vedremo se sarà sopra o sotto il punto percentuale). Con un indice dei prezzi al consumo ancora vicino a zero, la crescita nominale sarà inferiore a due punti percentuali, in tal caso il rapporto debito/Pil continuerà a peggiorare. È un indicatore chiave per l’appartenenza all’area euro, ma attenzione, è un barometro anche per chi acquista i titoli di stato, siano essi soggetti esteri, banche o risparmiatori italiani. Le prossime aste dei buoni del Tesoro daranno già alcune indicazioni importanti.
Sia gli appuntamenti politici europei, sia quelli finanziari sono molto ravvicinati. Angela Merkel vuole un accordo quadro a marzo per non attendere le elezioni francesi di aprile che, dopo lo scandalo che ha colpito François Fillon, sono più incerte che mai. Quanto all’Italia, ammesso che si voti a giugno e i sondaggi dicano il vero, si avrebbe una situazione molto simile a quella spagnola, senza un chiaro vincitore, soprattutto senza la possibilità di fare un governo che governi; con il rischio che serva un altro voto anticipato. A differenza dalla Spagna, però, le conseguenze economiche e finanziarie sarebbero ben più pesanti perché Madrid aveva già imboccato la via della ripresa, mentre Roma, come abbiamo visto, resta ancora lontana.
A quel punto, l’Italia potrebbe trovarsi di nuovo sotto attacco, incapace di aggiustare i conti e di tenere il passo per restare nel primo cerchio. L’eventuale uscita dall’euro, in tal caso, avverrebbe nelle condizioni peggiori, come accadde nel 1992 con il Sistema monetario europeo. Allora ci vollero quattro anni e due svalutazioni per riprendersi, oggi che abbiamo già perso dieci punti di Pil e non siamo riusciti a recuperarli sarebbe ancora peggio. Matteo Renzi avrebbe detto che sono discorsi da gufo, ma la realtà ha dimostrato che i gufi, semmai, erano grilli parlanti.