Oltre 9,3 milioni di italiani non ce la fanno, sono a rischio povertà e l’area di disagio sociale non accenna a restringersi. Lo dice Unimpresa e lo calcola: tra il 2015 e il 2016 altre 63mila persone sono entrate nel bacino dei deboli in Italia. Complessivamente, adesso, si tratta di 9 milioni e 308mila persone in difficoltà. Crescono in particolare gli occupati precari: in un anno, dunque, è aumentato il lavoro non stabile per 200mila soggetti che vanno ad allargare la fascia di italiani a rischio.



Ai disoccupati vanno aggiunte ampie fasce di lavoratori con condizioni precarie o economicamente deboli che estendono la platea degli italiani in crisi. Si tratta di un’enorme “area di disagio”: quasi 3 milioni di persone disoccupate, poi i contratti di lavoro a tempo determinato, quelli part-time (737mila persone) e quelli a orario pieno (1,73 milioni); vanno poi considerati i lavoratori autonomi part-time (823mila), i collaboratori (327mila) e i contratti a tempo indeterminato part-time (2,71 milioni). Questo gruppo di persone occupate – ma con prospettive incerte circa la stabilità dell’impiego o con retribuzioni contenute – ammonta complessivamente a 6,34 milioni di unità. Il totale dell’area di disagio sociale, calcolata dal Centro studi di Unimpresa sulla base dei dati Istat, nel 2016 comprendeva dunque 9,3 milioni di persone, in aumento rispetto all’anno precedente di 63mila unità (+0,68%).



“Di fronte al calare della disoccupazione, si assiste a un’impennata dei lavoratori precari”, commenta il vicepresidente di Unimpresa, Maria Concetta Cammarata, che poi sbotta: “È uno scambio inaccettabile. Quale futuro diamo alle generazioni che verranno? Il lavoro è la base per la vita, della dignità della persona, ma questa situazione lo sta drammaticamente mortificando”. Maria Concetta, dopo aver fatto i conti ,chiama l’etica al capezzale di questi disgraziati per portare conforto. Tra quelli che stanno lì c’è chi impreca, chi se la prende con il destino cinico e baro e chi ci mette il carico da undici: Andrea Garnero, economista Ocse, di che “un italiano su 10 si ritrova uno stipendio sotto il minimo contrattuale”.



Ehi, ehi, dopo aver digrignato i denti al destino e mondato la coscienza, tocca fare di più. Ci provano in Europa: lo si scorge tra le pieghe delle ultime raccomandazioni fornite dall’Ue all’Italia, sta scritto come il Bel Paese “debba trasferire il carico fiscale dai fattori di produzione al consumo e al patrimonio”. Indipercuiposcia, aumentare l’Iva e tassare i patrimoni. Ok per i patrimoni quando sono solo rendita, ma, suvvia però, pensare di ridare al borsellino di Cesare quel che tocca a Cesare per permettergli di fare quella spesa che, con l’aumento dell’Iva, costerà di più, no, vi prego no!

Si dirà: fare la spesa dentro queste traversie? Sì signori, anime belle, la crescita economica si fa con la spesa, non con la produzione, né con il lavoro! Fatta la spesa sparigliato l’inganno che gli eticisti non vedono e i Policy Maker misconoscono. Già fatta, si dovrà riprodurre, ci sarà lavoro e meno precario, pure redditi più acconci!

Sì acconci, per fare altra spesa e continuare a fare la crescita. Sì, cari miei, vi piaccia o no, la pratica economica, funziona così!